Pubblicità

Pubblicità

RossoBia

Il Filo Rosso – di Bia Cusumano

                                                               A mio padre, radice della mia anima

Forse era quel saluto sulla soglia della porta, quando imboccava la strada, svoltando a sinistra e lui la seguiva con lo sguardo fino alla fine… forse erano i loro pranzi complici a base di insalata mista e proteine, perché Gea seguiva una alimentazione sana. O forse erano quei ritagli di riviste e giornali di convegni disseminati per il mondo che il padre custodiva gelosamente dentro una carpetta di pelle, o le sorprese fatte all’improvviso colmando i desideri che Gea non aveva neanche il bisogno di esprimere. Forse erano i suoi occhi verdi profondi come il mare di Sicilia, in cui la figlia si rispecchiava e vedeva sé stessa, la nonna Margherita e il segreto straordinario delle parole, sentendo il battito del cuore di tutti e tre, in un filo rosso che attraversava le generazioni. Qualunque fosse il motivo dell’amore sconfinato tra Gea e suo padre, (come se l’amore poi ne avesse uno e si potesse spiegare) Marco amava sua figlia  senza limiti e la chiamava il suo miracolo d’amore. L’aveva partorita lui, diceva sempre. E in fondo era così. La madre di Gea era andata via pochi mesi dopo il parto.  Via da quel visetto rosa, dai capelli rossicci e da quegli occhioni nocciola, pieni di luce. Povera donna, era crollata subito dopo il cesareo e preda di una furiosa depressione, aveva tentato di soffocare la bimba nella culla, senza immaginare che la bocca di Gea nessuno poteva chiuderla o soffocarla. Così le urla si erano levate alte nella stanza da letto e la madre, con gli occhi sbarrati era scoppiata in un pianto isterico che aveva attirato l’attenzione del marito, della nonna e della zia vedova.

“Chi fa? – aveva urlato come una pazza la zia – Bedda Matri Santissima, la picciridda voli affucari! Tonia infuddì!”

Il silenzio aveva raggelato tutti i presenti accorsi. Tonia si era stretta in un guscio di lacrime e singhiozzi. Il marito si era fiondato sulla bimba che aveva protestato, con tutto il fiato dei suoi piccoli polmoni, il suo inalienabile diritto alla vita. Da allora, il nulla. Marco non aveva mai confessato alla polizia l’orribile accaduto ma aveva preteso che Tonia fosse condotta in un reparto psichiatrico, al più presto possibile. Avrebbe avuto le migliori cure ma sarebbe dovuta stare alla larga dalla figlia. Gea era cresciuta in fretta, con tanto amore intorno. Certo non sapeva cosa fosse avere una madre. Ma sapeva cosa significasse avere una nonna sempre presente, una zia vedova premurosa e un padre che aveva fatto i salti mortali per conciliare una carriera impegnativa, una figlia e riuscire ad essere anche mamma. Marco aveva ragione quando ribadiva: “Ti ho partorito io”. Nel trascorrere degli anni, quella frase non l’aveva pronunciata più con astio o rancore, ma con orgoglio e consapevolezza. Era stata una infanzia felice. Gea era figlia unica, perché il padre non si era più legato a nessuna donna dopo quel terribile trauma che forse non aveva mai superato. Tutti e due erano rimasti nella casa materna fino al compimento dei diciotto anni di Gea. Dopo la festa del diciottesimo, Marco aveva convocato tutti e aveva messo a conoscenza della scelta irrevocabile di andar via insieme alla figlia. Lontano, lì dove l’ombra di quel tentato omicidio in culla, non potesse perseguitare più nessuno. Ormai Gea era una giovane donna, bella ed esuberante, aveva ereditato il dono della parola dalla nonna paterna, venuta a mancare prima che Marco si sposasse con Tonia. E forse meno male, perché Margherita a Marco glielo aveva sempre fatto intuire, pur senza mai condizionarlo nella sua scelta che in Tonia serpeggiava qualcosa di strano. Aveva avuto appena il tempo di conoscere la futura sposa del figlio e i suoi occhi ombrosi, le avevano turbato profondamente il cuore. Così un giorno si era permessa di dire: “Marco, ma tu sei sicuro che Tonia sia la donna giusta per te? Non parla mai, non sorride mai, sta sempre a fissare le lancette dell’orologio in attesa che il tempo passi quando vieni a trovarmi insieme a lei. Composta ma assente. Vedo una ombra luttuosa nella sua anima. Comu si avissi nnà mala sorti, stà picciotta!

“Tonia, è una ragazza discreta, riservata, poco loquace ma è di buona famiglia, docile, pacata. Certo che sorride poco! Con l’infanzia che ha avuto!? – aveva risposto Marco – sì, la sposo e vorrei, mamma, che ne fossi felice”.

Poi la cirrosi epatica aveva divorato Margherita in pochi mesi. Le nozze furono rimandate e quando Marco si presentò in chiesa per sposare Tonia, risentì dentro sé le parole della madre, certo non di buono auspicio. Un brivido gli percorse la schiena e il respiro per un attimo si arrestò in petto. Pensò fosse la pena struggente di non potere condividere quel momento sacro con la madre che amava infinitamente. Si rianimò e proseguì con passo celere verso l’altare. Tonia lo aspettava con lo sguardo spento, come se non provasse alcuna emozione, né gioia né ansia, né trepidazione. Le nozze furono celebrate in pompa magna. La madre di Tonia, aveva curato tutto nei dettagli, perché la futura sposina era sempre con la testa altrove. Dal viaggio di nozze Tonia tornò con vomito e febbricola. Certo cagionevole vi era sempre stata ma la madre e la zia vedova la guardarono sbigottite.

“Di solito, una torna di lu viaggiu di nozzi, cchiù grossa e felici, tu vomiti e ha la frevi?”

La zia Melina aveva la cattiva abitudine di parlare sempre prima di tutti. Forse perché era vedova e non potendo stordire più il marito, aveva urgenza di emettere sempre fiato dalla bocca, almeno ogni mezz’ora. Viveva in simbiosi con la sorella maggiore e dalla morte del marito, si era trasferita nella casa di Tonia. Certo, riusciva a cogliere sempre sfumature quasi impercettibili e dettagli inconfutabili.  Tonia era incinta, tutto qui. Nella sua pancia metteva radici una creatura che lei non desiderava e non amava affatto, come in fondo non amava Marco. Ma Tonia, sapeva amare? Povera donna cresciuta senza padre, sotto l’egida ferrea della madre e della zia vedova, onnipresenti. Sempre malaticcia e insicura, insoddisfatta e ombrosa. No, non sapeva amare nessuno, in fondo neanche se stessa. Era preda di allucinazioni, nevrosi e di depressione. Tradiva sempre. Mentiva senza ritegno. Tutti sapevano la verità riguardo Tonia, ma l’avevano presentata a Marco nel migliore dei modi. Come fosse una bambolina di pezza da vestire e cunzari per essere piazzata al sicuro. Eredità pesante per la madre e la zia, orfana di padre morto in guerra, ricca ereditiera, infelice cronica, manipolatrice seriale. Un pacco da affidare alle amorevoli cure di Marco, uomo brillante e dal cuore generoso. Povero ed ingenuo. Ricco di sensibilità e cultura fuori dall’ordinario. Strana coppia, avevano pensato tutti. Troppo diversi. Due mondi, ciuciliavano i parenti e i compaesani. Lui alto, chiaro di carnagione, occhi verdi profondi, raffinato e colto. Lei bassina, sciatta, con i capelli sempre arruffati, scura di pelle e senza uno straccio di classe. Ma Marco, aveva l’età giusta per convolare a nozze e desiderava una famiglia. Tonia era lì con lo sguardo schivo e docile, una donna indifesa da accudire. La gravidanza fu uno strazio. Madre e zia non potevano lasciarla sola un attimo. Lamenti e conati di vomito continui, incubi, pianti e svenimenti. Ma il vero disastro fu dopo la nascita. Gea non conobbe mai la madre che restò sospesa tra ospedali psichiatrici e case di cura ovunque, purché lontana. Furono i patti sanciti e voluti in maniera ferrea da Marco. La condizione era che se solo avessero fatto avvicinare anche di un solo centimetro Tonia alla figlia, non avrebbero mai più rivisto Gea, né la nonna né la zia dalla lingua lunga. E Marco sarebbe andato a denunciare il tentato omicidio. Dritto in polizia con tanto di prove che negli anni aveva conservato con precisione ossessiva. Al diciottesimo di Gea sarebbero andati via padre e figlia e sarebbe calato il sipario su quella terribile vicenda umana. I patti furono rispettati e così quietamente trascorsero prima infanzia e adolescenza di Gea.

La mamma era morta durante il parto. Così le fu detto da parte della nonna, della zia, del padre e di tutta la piccola comunità marinara in cui vivevano in Sicilia. Tutti complici e collusi di quel segreto osceno. Un giorno poi Marco avrebbe detto la verità, quando si sarebbe sentito pronto, quando avrebbe intuito che la figlia potesse accogliere quella atrocità, riuscendo a superare, a perdonare o anche a odiare quella madri foddi dal cuore snaturato. Un giorno, lo avrebbe deciso Gea, cosa farne di quella madre, non altri se non Gea. Alla figlia Marco, come regalo di compleanno quando la piccola aveva soffiato la sua prima candelina, aveva regalato un bracciale di rubini. Gea lo indossava sempre inconsapevole del fatto che stranamente la madre aveva legato al suo polso, quasi a cucirlo alla pelle, un filo rosso. Rosso come i capelli della figlia. Rosso come il vago ricordo del suo visetto stretto sotto il cuscino tra le lenzuola della culla. Rosso come il sangue che si procurava tagliandosi le vene ogni tanto in folli tentativi di suicidio, per la colpa che la divorava dentro. Per quella mostruosità contro natura che aveva commesso e che le era costato tutto. Rosso come l’amore malato che sapeva provare in cui si annidava irrimediabilmente l’ombra della distruzione.

Gea e suo padre erano il filo rosso della bellezza, della vita che creava parole, che saltava oltre ogni baratro.  Il filo rosso che resisteva a qualsiasi orrore. Marco aveva lo stesso bracciale ma non lo indossava mai. Per il ruolo istituzionale che ricopriva, cercava di essere un uomo sobrio e poco vistoso. Un giorno, Gea aveva trovato il bracciale di Marco, dentro un cassetto, rassettando casa nuova ed aveva sorriso. Suo padre, il suo grande ed immenso amore. La sua unica e vera famiglia, la radice di ogni suo sogno e desiderio, di ogni entusiasmo e di ogni sua meta. Una lacrima le scese inconsapevole sul volto. Poi un pensiero le si presentò inquieto nella mente. Un bimbo, nell’appartamento accanto, nel nuovo residence in cui si erano trasferiti da poco, urlava disperatamente. Quel pianto irrefrenabile le trafisse le viscere, la fece vacillare e all’improvviso si accasciò a terra. Un pianto che non le diede più tregua. Non se lo era mai chiesto in tutti gli anni trascorsi ma sua madre dove era sepolta? Dove era la tomba presso cui portare fiori e candele? E’ strano come la verità si apre all’improvviso squarciando il velo di menzogne ed omissioni. Segreti tenuti nascosti per decenni. Sua madre che volto aveva? Che tono di voce? Che odore faceva la sua pelle? Un pianto inconsolabile le salì dagli abissi più reconditi dell’anima.

Marco rincasò tardi quella sera trovando la figlia in uno stato di angoscia totale. Capì. Era arrivato il momento della verità. Arriva sempre nella vita, questione di tempo.

“Idda dunn’è?” – disse Gea – rimarcando quel dialetto siciliano che sapeva di appartenenza, di scirocco, di mare, di passione e pena. Pena atroce per il cuore di una figlia, ingannata, tradita, abbandonata, cresciuta in una bolla di amore infinito ma trucidata per sempre in un amore insostituibile, quello di una madre. Marco l’abbracciò e piansero insieme quello strazio senza appello, senza soluzione. Quella ferita che sanguinava e sempre avrebbe sanguinato.

“Non sono state nè tua nonna, né la zia Melina – disse subito – voglio che tu sappia che è stata solo una scelta mia. Se vuoi odiarmi puoi farlo, ma risparmia tua nonna e la zia – ti prego – Gea. Idda unn’è bona di testa, di cuore, di anima. Solo questo so, che ha provato con un cuscino a soffocarti in culla quando eri una picciridda.  Ti abbiamo cresciuto al riparo da una donna pazza. Ti abbiamo fatto credere che fosse morta durante il parto perché pensavamo saresti impazzita pure tu. Ci sono dolori che non si possono sopportare. Io non l’ho mai perdonata. Mi ha distrutto la vita. Ha distrutto una famiglia intera. Non potevo permettere distruggesse pure la tua vita. Meglio una madre morta che omicida.”

“Papà – disse Gea – sei stato il padre migliore che una figlia possa desiderare di avere. Mi sei stato padre, madre, fratello, sorella, amico, compagno di giochi, di studi, complice di parole e sei la radice della mia anima. Ma su una cosa hai torto e te lo dico da ragazza. Sono cresciuta piena di amore, di cura, di dolcezze, di premure. Tu, la nonna e la zia Melina non mi avete fatto mancare nulla ma nessuno può colmare il vuoto di una madre o sostituirsi a lei. Nessuno può spezzare un legame che pur malato è un sigillo di appartenenza. Meglio una madre omicida che morta. Perché io un giorno forse potrò avere la forza di perdonarla ma ad un morto non si può perdonare più nulla”.

Da quella serata, trascorsero molti anni. Gea divenne una dottoressa brillante. Una neuropsichiatra con il dono della parola. Sempre in giro tra convegni e meeting internazionali. Di Tonia, non chiese più nulla a nessuno. Soprattutto con il padre non pronunciò mai più il nome madre. Indossava sempre il bracciale di rubini e quando rientrava a casa dopo l’ennesimo convegno in giro per il mondo, correva nella stanza da letto di Marco, apriva il cassetto e stringeva forte tra le sue mani, il bracciale gemello. Che il Cielo ti benedica sempre, padre mio adorato, sussurrava.

Una mattina, nel reparto di neuropsichiatria di cui Gea era il primario, fu condotta da un illustre collega conterraneo, a cui Gea era molto legata, una donna con lo sguardo svuotato di vita e dalla bocca cucita.

“Nessuna parola da anni – disse Aurelio – un caso disperato. Nessuna cura possibile che la riconduca a dei parametri fisiologici accettabili. Un vegetale o una bestiolina. Non so. Guarda sempre le lancette dell’orologio. Ora ha smesso finanche di mangiare. Se continua così sarà presto la fine, capisci, Gea? Nnà foddi da manuale. Ha tentato il suicidio in questi anni, non so quante volte. Ha tutti i polsi ricuciti a più riprese. L’hanno salvata sempre. Ha dietro una ricca famiglia che fa pervenire ad oggi un sacco di soldi, ogni mese. Ma non ci sono mai stati miglioramenti. Credo che navighi da decenni da ospedale in ospedale, da reparto in reparto. Adesso è approdata qui dalla nostra Sicilia. La Sicilia, un’isola che partorisce geni e mostri. Dicono che ha cercato di uccidere la figlia in culla, ma il marito non l’ha mai denunciata. Sai, sono voci che ho raccolto qua e là. Insomma ora è giunta a te, mia cara dottoressa – disse Aurelio – quasi in tono di sfida. Aurelio aveva il vizio di mettersi sempre in competizione con Gea. Vediamo se lo sai fare tu il miracolo”.

Non poteva che approdare a lei, quella donna. Gea salutò Aurelio con un bacio furtivo, facendosi scivolare addosso le sue parole provocatorie. Incollò i suoi occhioni nocciola sul suo bracciale di rubini e poi sui polsi della donna. Vi erano cicatrici profonde e un filo rosso attorcigliato, quasi conficcato nella pelle, cucito anch’ esso lì tra amore malato e vita tradita. Un filo rosso tra punti di sutura e verità sospese.

Gea avvicinò il suo polso a quello della donna. Fu un gesto istintivo, un impulso incontrollabile. Fu il male che chiedeva perdono. Il destino che si piegava all’amore che torna, senza parole. Un filo rosso e gli occhi di due donne, una da sempre ritenuta foddi e una dottoressa con la strenua e ardita convinzione che i matti non esistono.  

Me matri è” – sussurrò tra le lacrime – Gea.

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: