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Varie

Il racconto. Calata in uno scenario carico di suggestioni, una vicenda di palpitanti passioni amorose

L’allieva dalle gambe lunghe

di Vincenzo Di Stefano

Venne in sogno, identica ad allora: le gambe lunghe, le mani da pianista, la pelle olivastra, il sorriso malizioso, i seni piccoli. Come allora, come la prima volta, la baciai. E ricordai l’umido delle labbra, l’incrociarsi astuto delle lingue, le mie mani che cercavano il suo petto, e che poi scivolavano giù, sempre più giù.

«Dove sei stata?» le chiedevo, novello Florentino Ariza. «Lontano», rispondeva lei, «ma ora sono qui, per te, e non andrò più via» sussurrava quasi fosse davvero Fermina Daza al culmine d’una notte di passione sopra un battello fluviale che risale il Magdalena mentre tutt’intorno infuria il colera.

Mi ridestai in un vortice di tensione. Era da tempo che non tornava ad arroventare un’antica ferita.

***

«Sed difficultas laborque discendi disertare neglegentiam reddidit.»

«Beh, allora, come hai tradotto?» le chiesi curioso ed anche impaziente.

«Un attimo, prof», sbuffò. Poi guardò il foglio, aggiustò qualcosa e sentenziò: «Ma la difficoltà e la fatica dell’imparare hanno reso eloquenti i fannulloni».

Aveva fatto centro, ancora una volta. Era un’allieva infallibile.

«Molto bene», commentai, «se ti capita in sorte una versione di Cicerone, sei a posto».

«Sì, ma questo era difficile» si schermì. E una luce le brillava negli occhi. Si passò una mano nei capelli, li ravvivò, si rimise il cerchietto fucsia, guardò l’orologio al polso. «Sono già le sei, è tardissimo». Si alzò dalla sedia, radunò le sue cose: matite, penne, quaderni, il dizionario. Ficcò tutto dentro una borsa a forma di sacco e fece per prendere la direzione della porta. Poi si girò un attimo a guardarmi. «Le volevo chiedere una cosa, prof». «Dimmi», abbozzai. Esitò, poi puntò lo sguardo e indicò la mia mano sinistra: «Lei porta la fede». Ero confuso. «Sì», biascicai. «Ma sua

moglie non l’ho mai vista qui, a casa, perché?». «Ah, sì», risposi poco convinto, «è una storia lunga».

«Me la racconterà, allora». Lo disse senza interrogativo. Imboccò il corridoio verso l’uscita e svanì.

***

Conobbi Caterina il primo anno di insegnamento a Pantelleria. Lei, come me, aveva trovato una cattedra libera e senza pensarci due volte l’aveva presa. L’isola era nera, nerissima. La sua mollezza stordiva, al pari del pesce spada coi capperi alla brace, dello zibibbo, del vento che sempre vi soffiava da ogni parte, del mare che la batteva inesausto. Mi innamorai di entrambe. Di Caterina e dell’isola. E furono due amori corrisposti. Entrambe mi avvolgevano liete, mi facevano sentire protetto. Sui terrazzamenti di Mursia, di fronte le coste di Kelibia, che rosseggiavano al tramonto sull’altra sponda del Mediterraneo, vivevo quell’incantamento che avvince lo straniero che amorevolmente viene accolto in una terra sconosciuta. Quel tempo fu come la sospensione della vita in una dimensione parallela. Io stesso mi sentivo nuovo, un altro da me. E sperimentavo tutto quel nuovo con una voracità che non mi riconoscevo. Le prime settimane, era settembre inoltrato, il pomeriggio, finite le lezioni e dopo un rapido pranzo, andavamo a fare il bagno alla grotta di Sataria, al fondo d’una gola chiusa da una parete verticale di ossidiana. La fonte sulfurea rendeva calde le acque intorno. La prima volta caddi in mare vestito, non m’ero neppure levato di dosso il telo da spiaggia che tenevo sulle spalle. Caterina rideva e mi urlava «Le chiavi, le chiavi». Quelle dell’auto, intendeva, ché l’avevamo presa a noleggio, e che erano nella tasca dei miei pantaloni. Nuotare in quel mare equinoziale, placido e accogliente, riconciliava. Come riconciliavano le sere passate nel dammuso che avevo preso in affitto, dalle parti di Scauri, e dove Caterina presto si trasferì. Una porta-finestra si apriva su una terrazza dalle piastrelle azulejo che dava sul mare, giù, nella costa scoscesa. Nel retro, in un recinto di pietre a secco, un ulivo contorto cercava il cielo.

***

Era venuta per delle ripetizioni di latino. Mi aveva chiamato un collega. «È brava», esordì, «solo deve migliorare nelle traduzioni; la madre mi ha

chiesto se conoscevo qualcuno che potesse darle qualche lezione un paio di pomeriggi a settimana». Avevo tentennato. Avanzato qualche scusa. Non avevo molta voglia. Lavorare era faticoso in quel periodo. Le mattine a scuola erano faticose. Caterina mi aveva mollato già da un anno ed io non avevo ancora superato del tutto il trauma dell’abbandono; mi trascinavo stancamente, scrivevo qualcosa il pomeriggio, la sera leggevo e poi andavo a letto. L’unica mia compagnia era Rufus, il gatto che avevo trovato un giorno in giardino, piccolo, spaurito e affamato.

Il collega insistette. Fece un altro riferimento alla madre: «Vedessi che donna…», ammiccò mellifluo e svelando d’un colpo il suo reale interesse. Tirò fuori la storia di un vecchio favore che gli dovevo restituire. Vinse. D’altronde, quando mai avevo opposto robuste paratie ai marosi che, puntuali come le stagioni, arrivavano a travolgermi?

***

Giulia, così si chiamava, si presentò la prima volta un pomeriggio di marzo, sul finire di un inverno che ancora non voleva scrudire.

Parlava di continuo, non si fermava. Era un po’ imbarazzata e in quel modo cercava di smorzare la tensione. Citava tutti i libri che aveva letto. Cercava di darsi un tono. Alta, gli occhi verdi, i capelli corvini, lunghi, a coprirle le spalle magre. Una felpa di due misure più grande, jeans stretti, ai piedi un paio di ballerine scure. Era di un’intelligenza vivacissima, la battuta sempre pronta. Ogni tanto però s’immusoniva, e stava così anche l’intero pomeriggio, quasi svogliata, ad inseguire pensieri solo suoi.

Era all’ultimo anno di liceo. Col passare delle settimane aveva preso confidenza, abbozzava qualche sfottò, mi provocava. La lasciavo fare, più per indolenza che per altro. Ma andando avanti, inoltrandoci verso l’approssimarsi dell’esame di maturità, mi scoprivo sempre meno disinteressato. Ne scrutavo gli angoli della bocca, le ciglia quando le aggrottava, il modo di camminare, l’ancheggiare sopra le gambe lunghe.

«Domani ho lo scritto di italiano, le faccio sapere come va», disse alla fine di una delle ultime lezioni scuotendomi dai pensieri che stavo facendo su di lei. «Andrà bene», dissi calmo, con un mezzo sorriso.

Andò bene infatti. E lo stesso fu per quello di latino. Le rimaneva l’orale. Il giorno prima era un po’ agitata. Provai a tranquillizzarla. «Appena finisco la chiamo, prof». «Va bene», risposi. «Nel pomeriggio poi la vengo a salutare», aggiunse. Fu lì che ebbi il primo, vero, sussulto.

***

Gli ulivi digradavano per la costa, giù nella vallata di Fiumegrande, fin quasi a lambire l’autostrada.

«Metti bene la rete», diceva mio fratello. «La pioggia ha fatto bene alle olive» aggiungeva, «guarda come sono panciute».

Era poco meno di un ettaro di terreno, con una cinquantina di alberi di Nocellara. Se ne cavava un olio denso e fruttato. L’avevamo ereditato, quell’uliveto, da nostro padre, che s’era spaccato la schiena, l’intera sua vita, negli antichi feudi della Marcanzotta, della Pietra, di Delia.

Da piccoli, la raccolta era una festa, spensierata e lieta. Da grandi, l’unico modo ch’era rimasto per riannodare un qualche filo con le proprie radici.

Quell’autunno, per la prima volta dal matrimonio, dieci anni prima, Caterina non c’era. A febbraio, un pomeriggio di pioggia e vento, mentre fumava nervosa una Camel in cucina, io seduto sul divanetto a leggere, aveva detto, decisa: «Amo un altro, vado a vivere con lui».

***

«Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi.»

Aveva iniziato a leggere «Lolita» dopo che gliene parlai, un giorno di maggio. Lo stava divorando. Ero rimasto vittima di un pensiero morboso e sapevo già che vi avrebbe trovato evidenti similitudini con la condizione che tra noi si stava innescando.

Quel pomeriggio di fine giugno teneva il libro nella borsa. «Il mio ragazzo mi ripete che non dovrei leggere questa roba», aveva detto, insinuando in me il tarlo della gelosia, mentre se ne stava sdraiata sul divano del mio soggiorno.

Un’ora prima aveva suonato alla porta. Ero andato ad aprire. Quella mattina aveva trionfato all’orale. Indossava uno chemisier corto a fiori. La prima abbronzatura già la scuriva. Con uno slancio mi aveva abbracciato. Mi aveva stretto forte. «Grazie di tutto», aveva detto. L’avevo stretta più forte mentre sentito tremare le mie fondamenta.

Bruciato dalla passione, come Humbert Humbert, davanti a lei, riflesso del mio desiderio, soffio vitale e unico antidoto al limite imposto dalla morte, stavo ormai sprofondando in un vortice d’ossessione.

***

Furono, i tre successivi, mesi di deliquio. Giulia veniva a trovarmi spesso il pomeriggio. A volte però scompariva per settimane intere e non rispondeva né ai messaggi, né alle telefonate, lasciandomi in una cupa incertezza. Quando poi tornava, docile, remissiva, la sentivo comunque preda dei sensi di colpa.

Ci amavamo dolcemente. La sera, ogni volta che andava via, sentivo che si portava una parte di me. Non avrei potuto averla a lungo. Ci rimuginavo ogni giorno, ogni ora. Ma poi lei era lì, tra le mie braccia, ed io spostavo più in là il momento della mia esecuzione. Che arrivò un giorno di fine settembre, quando mi comunicò la scelta: «Vado a Milano», disse quasi freddamente. «C’è una buona facoltà, e poi lì avrò più occasioni di lavoro dopo la laurea», aggiunse. Annuii, mentre il caos si impossessava di ogni centimetro del mio organismo.

«Sai cos’è la cosa più dolorosa?». Alla domanda risposi con un’altra domanda: «Che cosa?». Tirò un sospiro, poi chiuse la questione: «Che noi due non potremo mai avere una quotidianità nostra».

***

Quella mattina stavo andando a scuola. Nembi bassi coprivano il cielo. Cadeva una pioggia leggera. Avevo da poco superato i sessanta, la pensione si avvicinava, e pensavo agli anni solitari trascorsi e a quelli che ancora avrei vissuto. Pensai a Giulia. Alle sue gambe lunghe, ai seni piccoli, alle sue mani da pianista. Chissà dov’era in quel momento, cosa stava facendo. Dopo la sua partenza, l’avevo rivista di rado, qualche volta d’estate o durante le vacanze di Pasqua e di Natale. Negli anni successivi ci eravamo scritti spesso. Poi, lentamente, come accade nella vita, anche le lettere s’erano diradate e ne avevo perso ogni traccia.

L’auto filava nel rettilineo, la pioggia ora era più intensa, la strada viscida. Ad un curva l’auto sbandò, all’improvviso, e tirò dritto, verso la campagna che le correva di fianco. Gli alberi d’ulivo, contorti sotto quel cielo di fine inverno, parevano attendermi.

 Nella foto in alto Sue Lyon in «Lolita» (1962), uno dei capolavori di Stanley Kubrick

L’autore

Vincenzo Di Stefano è nato a Castelvetrano nel 1970 e vive a Santa Ninfa. Giornalista free-lance, esperto di comunicazione istituzionale, si è occupato spesso, con articoli e testi critici, di letteratura, teatro e cinema. È autore della raccolta di poesie «I fuochi sono spenti» (2009) e di diversi racconti pubblicati su giornali e riviste.

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