“Itaca era lei. Il suo sorriso e le sue parole. I suoi sguardi. La sua voglia di vivere oltre ogni dolore. Lei era Casa. L’ho capito subito appena l’ho incontrata per la prima volta, – disse Alessandro a Beatrice, – reclinando la testa leggermente sulla spalla dell’amica. Le lacrime scendevano mute, zuppe di maestrale sotto l’albero alla pineta. Abbiamo fatto salti mortali per avere una vita normale. Grazia la desiderava infinitamente, per poi finire qui, io e te sotto questo albero del cazzo.”
Beatrice era la migliore amica di Grazia. Alla cerimonia aveva pensato lei, curando ogni dettaglio con la sua precisione e la sua generosa ma discreta presenza. Un corteo infinito di gente. Non si finiva più di stringere mani e porgere guance. Erano tutti distrutti. Il padre di Grazia, ormai avanti negli anni, sopravvissuto a tutto, non sapeva se fosse possibile sopravvivere anche a questo. Nessuno credeva fosse accaduto sul serio. Forse era solo un incubo da cui svegliarsi. Alessandro all’inizio aveva avuto un ottimo rapporto con il suocero, poi le cose si erano complicate. Dopo molti anni avevano trovato il loro equilibrio eppure sembrava non si riuscisse ad attraccare mai ad Itaca. Di questo, il suocero, solo di questo, lo riteneva responsabile. Che fosse sepolta o affondata, dove era questa Itaca di cui parlava sempre Grazia?
“Lo sai perché ti amo? – aveva detto ad Ale – in una delle loro tante serate tra schermaglie e giochi come fossero perennemente due bimbi innamorati. Lo sai?”
E Alessandro sorridendo: “No, perché? ma secondo me c’entra Itaca … Siete strani, voi poeti, Grazia, create con le parole un mondo parallelo, tutto vostro, il vostro “Altrove”, dove vivete. Come funamboli restate sospesi un po’ qua e un po’ là, con l’eleganza e la follia di vivere sull’abisso della bellezza. Non avete mai paura. E’ da quando ti conosco che mi parli di Itaca, ma dopo tutti questi anni trascorsi insieme, mi vuoi dire cosa sia realmente?”
“Hai tempo? – disse Grazia – se hai tempo te lo racconto.”
“Ho lezione domani pomeriggio all’Università. Gli ultimi appelli di esami a luglio e mi metto in vacanza. Voglio riposare. E’ stato un periodo massacrante, mi sento invecchiato di cento anni. Parla, ti ascolto. Lo sai che mi piace immensamente ascoltarti.”
Grazia lo guardò e sorrise, glielo sentiva dire da quando lo conosceva. Ma ogni anno era sempre la stessa storia. Alessandro era un treno in corsa. Non riusciva a fermarsi. Solo Grazia, con le sue parole sapeva farlo.
“Quando ero bambina, dormivo sulla pancia di mio padre. Tornava da scuola tardi, aveva giusto il tempo della pausa pranzo, prima di rimettersi a lavorare ma vi era il rito della fiaba pomeridiana. Così mi accovacciavo sulla sua pancia. Lui si stendeva su una poltrona di pelle gialla e mentre ascoltavo le sue parole, mi addormentavo. Ad un certo punto, doveva alzarsi e con tutta la dolcezza del mondo mi prendeva tra le sue braccia e mi lasciava accovacciata come un pulcino sulla poltrona. Mi stendeva una coperta sopra, mi dava una carezza, un bacio sulla fronte ed io facendo finta di dormire, con gli occhi socchiusi, lo guardavo camminare in punta di piedi mentre usciva dalla stanza. Non voleva svegliarmi. Ecco, quando ero piccola, Itaca era dormire sulla pancia di mio padre.
Quando frequentavo il Liceo, stavo sempre male. Una febbricola persistente, dolori diffusi e una terribile emicrania mi facevano compagnia tra versioni di greco e latino, interrogazioni e le poche lezioni che riuscivo a seguire in presenza. La malattia subdola covava dentro me. Ad un certo punto, il mio malessere cresceva così tanto che boccheggiando, molto spesso chiedevo alla docente che era in classe, di uscire fuori per chiamare casa. Stavo malissimo. Mio padre lasciava il suo lavoro di dirigente e scappava a prendermi. Salivo in auto muta e triste. Lui sapeva e mi parlava di cose belle. Soffriva in silenzio, non solo per il male che mi sfibrava il corpo ma per il giudizio altrui che puntualmente come una lancia nel costato arrivò a fine maturità. I miei voti erano così alti che giungere al massimo era scontato e prevedibile, ma tutte quelle ore di assenza … un tarlo nella mente dei mei compagni e dei loro genitori. Così a conclusione degli esami di stato, arrivò una lettera denigratoria a casa mia. Mi si accusava di averlo rubato a qualcuno altro il voto di maturità. Il mio sessanta, frutto di infinito studio, pur stando tanto male, era divenuto una deplorevole colpa e una condanna. A me studiare è sempre piaciuto, lo facevo ai tempi e lo faccio ancora oggi, con amore. Mio padre, strappò la lettera. Si dispiacque moltissimo per la mia estrema sensibilità, ferita a morte. Era chiaro fossero stati i miei compagni di classe con l’ausilio dei loro genitori. Mi disse: “Incontrerai tanta invidia, lungo il cammino della tua vita, perché gli altri non sanno quanto soffri e cosa significhi il dolore. Non sanno chi tu sia veramente. Non avere paura. Fai sempre il tuo dovere con amore e tenacia e non arrenderti mai alla cattiveria altrui. Non farti inquinare il cuore pulito che hai dal male che riceverai. Promettilo, Grazia.” Ecco a diciotto anni non ancora compiuti, nel caldo torrido di fine luglio, in quel paesino sperduto nel cuore della Sicilia, Itaca furono quelle parole.
All’Università, fu ancora più dura. Ogni esame costava cocktails micidiali di farmaci. Vi era qualcosa che si annidava e contorceva segreto, ancora senza nome, nel mio corpo esile e dolorante. Mio padre si alzava ogni mattina presto. Prima di andare a lavorare mi apparecchiava la tavola per la colazione. Una tazza capovolta sopra un piattino, i biscotti al latte messi accanto, il miele con un cucchiaino, i tovaglioli, un fiore di campo, spesso un post-it con la sua grafia curata: “colazione pronta, ti amo, papi.” Quando mi alzavo, vi era la caffettiera sui fornelli e il latte in un pentolino. Mi sedevo al tavolo della cucina e mentre lo immaginavo svolgere il suo lavoro, con la sua dedizione e il suo senso del dovere, mi gustavo la mia colazione. Itaca, durante il tempo universitario era quella colazione pronta. A causa delle mie condizioni di salute, studiavo da esterna. Alla fine di ogni esame ero completamente distrutta. Occorreva almeno un mese per riprendermi. Mio padre mi accompagnava in macchina. Sostava ore ed ore nei corridoi di Lettere in attesa che mi chiamassero per l’esame. Passeggiava avanti e indietro. Leggeva, parlava con gli altri studenti e ogni tanto rivolgeva una fugace occhiata sul mio volto contratto per il dolore. Non avevo paura dell’esame. Sapevo di averci messo l’anima in quella materia, l’avevo amata, alla fine era diventata mia. Così ad esame concluso, rientravamo in macchina a casa, con un altro trenta e lode stampato sul libretto universitario. Durante il tempo del viaggio, mio padre mi chiedeva di raccontargli come si fosse svolto l’esame. Gli piaceva tanto ascoltarmi. Si metteva sempre in fondo all’aula universitaria per evitare di procurarmi ansia. Aveva solo visto che gesticolavo sicura e disinvolta. Aveva guardato la mia nuca, i miei lunghi capelli rossi e il volto compiaciuto del docente. Così gli raccontavo il colloquio. Itaca era in quella macchina.
Ai tempi della specializzazione fu tremendo. Non era possibile non frequentare le lezioni e lo strazio della malattia mi procurò due anni di malesseri acuti, svenimenti, tremori, vertigini, crisi atroci di dolore, perdita di peso. Mi ridussi una larva. Mio padre saliva ogni weekend, per donarmi un po’ di ristoro, le sue parole di coraggio e i suoi occhi verde-mare. Mi portava i cibi di cui ero ghiotta. Cioccolato bianco e biscotti. Poi usciva e andava a zonzo per i negozi nelle vicinanze dell’appartamento che mi aveva affittato proprio di fronte la scuola di specializzazione. Mi comprava orecchini, borse e sciarpe colorate. Rientrava sempre in camera mia con buste piene di regali. Interrompevo di studiare e prima di fare l’ennesima iniezione del ciclo antidolorifico e ricostituente, tiravo fuori quelle meraviglie da donna.
Itaca era lì, tra quelle sciarpe colorate, i suoi sguardi colmi di amore e i mei sorrisi strappati alla fatica e al dolore.
In realtà, Ale, potrei continuare per tutta la notte a dirti che Itaca è Amore. E l’Amore non ha misura né buone ragioni. E’ cura e presenza come mi ha insegnato mio padre. Lui mi ha sempre amato così. Con tutta la dolcezza di una madre, la forza e la tenacia di un padre e la saggezza di una persona vissuta mille vite.”
Alessandro ascoltava sempre Grazia, incantato. Amava il dono delle parole che possedeva.
“Perdonami- le disse – io non sono stato mai amato così. E non ho saputo amarti così. Ma non voglio giustificarmi, credimi. La tua malattia è un calvario per tutti. Tuo padre è un uomo forte. Io sono fragile, ho sempre paura di fallire, qualsiasi cosa faccia. Non ho saputo darti quello che desideravi e meritavi. Lo so che ho sbagliato, che ti ho lasciato molto sola, che ti ho deluso tante volte, che sono stato assente, egoista. Alla fine ho anche cercato altrove per distogliermi dal tuo dolore. Ho avuto paura di essere fagocitato. Ho combinato un sacco di cazzate rischiando di perderti sul serio. Perdonami, Grazia, se alla fine non ti ho dato un anello, una figlia, una casa, una vita normale, come hai sempre detto tu. Ho avuto paura e non ho avuto il coraggio necessario per darti la tua Itaca.”
“Alla fine, mi sono arresa. Tutto qui – disse Grazia – stringendolo in un forte abbraccio e dandogli un bacio appassionato. Ti ho sempre amato Ale. Nonostante le tue debolezze, le tue insicurezze, le tue paure. Che si mangia questa sera?”
“Ma non veniva Bea a trovarci? Meno male che hai questa amica che cucina da Dio, se no mi faresti mangiare sempre insalate, frutta e pasta integrale tu!”
Itaca era lì, dondolava tra le loro parole, i loro baci, i loro sguardi. Itaca era nel loro Amore che durava da anni tra perenni montagne russe. Itaca era la complicità che avevano, i pianti che si erano fatti insieme, aggrappati l’uno all’altra, le risate e l’incanto, le passeggiate al faro, le notti folli nel loro letto. Itaca era appartenenza assoluta ed esclusiva. Itaca era il loro amore inevitabile. Destino e destinazione. Come diceva sempre Grazia.
Alessandro alzò la testa dalla spalla di Bea.
“Io non capisco – disse – come sia potuto accadere. Voglio ringraziarti per tutto quello che hai fatto per lei, per me, per noi. Ho voluto che venissimo proprio qui per farti vedere una cosa.”
“Le lettere? – disse Bea, sorridendo – Grazia era la donna dei riti, lo so. So tutto. Mi ha sempre parlato dei vostri riti. Le candele, la musica jazz, le colazioni, il faro, le lettere sull’albero. Le poesie di Salinas, i libri regalati, lo zibibbo a notte fonda, le vostre tisane, le vostre lunghe chiacchierate finché tu non ti addormentavi sfinito e lei continuava a parlare. In effetti le parole a Grazia non mancavano mai. Come potesse avere sempre la forza di parlare, pure distrutta, non l’ho mai capito.”
Il corpo di Grazia fu trovato dentro una grande scarpata. Un salto nel vuoto di settanta metri o più. La dinamica non fu mai accertata. Forse un colpo di sonno, forse i tanti farmaci, forse l’ennesima lite, forse aveva solo voluto prendere il volo. Lasciava un padre che era stato Itaca. Lasciava Alessandro per cui era stata Itaca. Lasciava una figlia ormai giovane donna che ad Itaca aveva preferito la certezza di una vita senza amore ma comoda e lontana. Le fu semplicemente riferito dal nonno che mamma aveva fatto un salto altrove.
Cosa fosse stata la vita di Grazia, forse lo sanno solo le sue parole. Le poesie che ha scritto, i racconti, le frasi sugli specchi con il rossetto rosso. Di lei restano i suoi sorrisi senza resa, i suoi sguardi che fermavano il mondo, la luce del suo cuore, l’amore che era riuscita a dare a tutti. E quella parola: Itaca, con la I a forma di cuore, che si era tatuata sul polso a maggio, prima di andarsene. Aveva detto ad Alessandro: “Sarà sempre il senso del mio essere stata qui su questa terra.” Itaca esisteva sul serio, non era una metafora letteraria, un sogno, una finzione. Itaca era Amore. Grazia aveva creato nella sua vita una Itaca di bellezza e passione che si era impinta nelle fibre di chiunque l’avesse incontrata. Creatura dell’Oltre, a metà tra questo mondo e l’altro. “Troppo tardi è arrivata nella mia vita per cambiarmi, troppo presto per farmi approdare ad Itaca – disse Ale a Bea – ora dove vado? Lei era tutto. Non ho più nessuno.”
Bea lo guardò con tenerezza. “Tutte le cose che ti ha detto Grazia, quella notte, dovresti dirle a suo padre. Forse Itaca potrebbe continuare a vivere tra voi, per amore suo. In fondo entrambi l’avete amata. Ognuno come ha saputo e potuto.”
“Adesso resto qui, sotto il nostro albero. Ne ho bisogno. Domani vado a trovarlo. Anche se lui lo sa che per la figlia era Itaca. Una cosa quella donna mi ha insegnato, che l’Amore vero esiste e non passa. Resta. Gli dirò anche che Grazia era la mia Itaca. Io come ho amato lei, non ho mai amato e mai amerò nessuno, nonostante i miei infiniti errori. Sì, Bea, Grazia aveva ragione, forse c’è voluto un folle volo, il suo, perché io lo capissi. Ma è vero. L’ho capito, tardi ma l’ho capito. Itaca esiste sul serio.”
Beatrice lo guardò con l’orgoglio con cui lo guardava Grazia. Forse erano i suoi occhi attraverso quelli dell’amica. Itaca era lì. Tra le parole di consapevolezza di Alessandro e la sua confessione d’anima, autentica e profonda, sotto l’albero delle lettere, alla pineta. Una folata di vento e una foglia a forma di cuore si posò ai piedi di Bea.
“Prendi, – disse ad Ale – è per te. Tanto ovunque sia Grazia, è e sarà sempre con te. Anche tu eri la sua Itaca.”