A tutte le persone affette da Fibromialgia
“Chi è?”, disse Giovanna trascinandosi a fatica. “Lara! Sono venuta a trovarti”. Giovanna, con la
tenacia e la tempra che caratterizzavano la sua persona e il coraggio di chi non temeva di fare
accomodare in casa nemmeno il suo peggiore nemico, giunse davanti alla porta blindata, guardò
attraverso lo spioncino e con un sorriso amaro e consapevole la vide. Sì! Era Lara, con un vassoio di
dolci in mano. Era venuta a trovarla nel silenzio di un pomeriggio lungo e doloroso. “Ho saputo che
sei stata male – disse Lara – e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere un po’ di compagnia. Quando
si sta male è così triste stare da soli. Per giunta tu – aggiunse –, in questa villetta desolata ai margini
della città, dovrai sentirti terribilmente sola. A questo servono le amiche”, e sorrise. Giovanna,
tenendosi alla spalliera del divano, la fece accomodare, in un silenzio carico di infinite parole mai
dette per una vita intera. Prese il vassoio di dolci e garbatamente rispose: “Grazie, non dovevi
disturbarti; sei stata molto gentile”. “Figurati, – rispose Lara – è il minimo che io potessi fare. In
fondo, Giò, ci conosciamo da una vita”. “Già, da una vita – disse Giovanna –. Quanto di preciso
non lo ricordo nemmeno più!” “Io sì! – disse Lara –. Come potrei mai dimenticare quando ti vidi
per la prima volta! Avevi forse otto anni o poco più. Capii subito che saresti stata tu, la mia
prediletta, la mia preferita. Non so perché, ma eri una bambina così sensibile e delicata. Ricordi?
Tuo padre aveva appena ricevuto il trasferimento, per lavoro, e tu e la tua famiglia avevate deciso di
seguirlo fuori, lontano da questa città, tutti appresso a lui”. “Ah, sì!”, aggiunse Giovanna, sedendosi
sulla poltrona e mascherando più che potesse il dolore e l’imbarazzo di vedersela presentare lì,
come sempre. “Scusa il déshabillé – disse –, non aspettavo nessuno e stavo cercando di riposare un
po’. Di solito sono abituata a ricevere in ben altri abiti, tu lo sai bene”. “Certo che lo so!, – disse
Lara –. Ma, figurati, con me non devi assolutamente sentirti in imbarazzo; io ci sono sempre stata
nella tua vita e ti ho sempre visto anche nelle peggiori condizioni! Peraltro mi pare che neanche
stavolta la bella botta che hai preso ci ha potuto; o mi sbaglio? Sì; hai il collare, sei in pigiama,
pallida, contratta, dolente ma hai sempre quei tuoi grandi occhioni vivaci e, nonostante tutto, sei
sempre bella. Sai, me lo sono sempre chiesta, Giò, come tu faccia… e, giuro, non ho mai trovato
alcuna risposta. Cosa sei geneticamente modificata? Sei bella pure quando cadi? Quando strisci?
Quando ti schianti? Quando a un certo punto è tutto buio? E non ti fermi mai a pensare che forse
potresti anche gettare la spugna, arrenderti, fermarti?”. Lara la guardò dritta negli occhi, in modo
terribilmente provocatorio, e a Giovanna scesero due lacrime silenziose. Poi, garbatamente, rispose:
“Metto su una tisana; hai portato i dolci, sei venuta per farmi compagnia, giusto?”. “Certo!”, disse
Lara e con disinvoltura si diresse verso la cucina: “La preparo io la tisana” e, con un risolino
sarcastico, aggiunse, “non vorrei che ti affaticassi troppo. Tu siediti, riposati, tanto di questa casa
conosco ogni centimetro quadrato; so come muovermi perfettamente a mio agio. Anzi, dimmi, la
tisana, la preferisci nelle tazze con le more rosse o in quelle coi fiori viola?”. “Va bene nelle tazze
con le more rosse – disse Giovanna –. Mi conosci così bene che sai che il rosso è il mio colore
preferito. Allora io mi siedo. Fai tu, tanto appunto conosci tutto di questa casa e dei mei gusti”. “Ne
ero certa! – disse Lara -. Tisana ai frutti rossi con zucchero di canna e poi miele… però tu mangia
qualche dolcino, sei fatta così magra ultimamente; non saranno mica tutte quelle medicine, Giò?”.
Giovanna la guardava. Lara si era presentata ancora una volta in un pomeriggio nel quale lei voleva
solo chiudere gli occhi, dormire se le fosse stato concesso farlo senza farmaci, dimenticare, non
sentire quel dolore ovunque e quel senso di sfinimento per colpa del quale anche muoversi
lentamente per casa tra sbandamenti e vertigini era una impresa eroica. Guardava la sicurezza e la
lucidità di Lara che con maestria preparava la tisana, lei che la conosceva da quando aveva otto anni
o poco più; la guardava in silenzio incredula. Con quale coraggio potesse essere lì dopo l’ennesimo
schianto, non se lo chiese, perché Lara non le diede poi molto tempo per pensare e riattaccò con i
suoi discorsi. “Questa volta, ti sei fatta proprio male; ho visto! Mi chiedo che fretta avessi di
ritornare al lavoro? Pensavo restassi a casa, a letto e al caldo; di più, in assoluto riposo, come un
paio di anni fa, ti ricordi? Ti ricordi, vero Giò, quando in quella bella giornata di maggio, curiosa
come sei, hai perso l’equilibrio mentre cercavi di scavalcare quel muretto? Quanto potevano essere
settantacinque centimetri circa? Eppure sei cascata giù come un sacco di patate e ti sei rotta una
costola e incrinata un’altra. Ti ricordi il male boia che ti sei fatta? Ti ricordi la corsa in ospedale e le
radiografie? E quanto sei stata a letto quella volta? Un mese o forse di più? Io, come vedi, ricordo
proprio tutto”. Sì, – rispose Giovanna – quasi due mesi allora rimasi a letto. La ripresa fu davvero
lenta, hai ragione. Tu hai sempre ragione”. “Sempre – disse Lara -. La volta precedente fu invece
una strana crisi di dolore che ti portò in ospedale… ricordi? Erano le festività dei Defunti e tu hai
avuto una crisi di dolore muscoloscheletrica così forte che nessun antiinfiammatorio e nessun
cortisone ci hanno potuto. Ti hanno condotto in ospedale d’urgenza e ti hanno fatto un bel ciclo di
flebo e… dopo quanto ti sei ripresa?”. “Dopo altri due mesi o forse più – rispose Giovanna -.
Rientrai al lavoro giusto poco prima delle vacanze di Natale e ripresi, con una fatica immane, il mio
amato lavoro a gennaio. Che memoria che hai, Lara! Io tutti questi dettagli non li ricordo nemmeno
più!”. “Perché tu vuoi dimenticare, Giò, cerchi di resettare tutto il dolore che hai vissuto in questi
infiniti anni, mentre invece io tengo la contabilità come fossi la tua commercialista. Ti verso la
tisana? – disse Lara –. Guarda che bel colore rosso in infusione crea questo filtro. Rosso come il
colore dei tuoi capelli. Certo, per adesso sono un po’ scomposti, ma stavi riposando per cui capisco.
Sono sicura però che anche questa volta ti riprenderai. E poi adesso hai capito tante cose, hai più
consapevolezze e più risposte. Il tempo serve anche a questo, o no, amica mia?”. “È davvero un
colore bellissimo il rosso – disse Giovanna -. Sai perché l’ho sempre amato così tanto? Ma tu sai
tutto di me; che ti chiedo a fare?!”. “Ma no, – disse Lara – mi è sempre piaciuto ascoltarti parlare; sei
una grande affabulatrice tu. Dimmi; dimmi pure il perché e, sorseggiando la tisana, mangia intanto i
dolcini che ti ho portato”. Giovanna, guardando Lara sempre con meno imbarazzo e sempre con più
sicurezza, le disse: “Il rosso mi ricorda la vita. La vita piena, intensa, quella che avrei sempre
voluto, senza cadute, schianti, dolori atroci, notti insonni, flebo, incidenti, farmaci, iniezioni,
ricoveri; la vita che avrei meritato. In fondo il rosso è il colore della passione, dell’amore, del
fuoco”. “Oh, sì, la vita! – disse Lara -. Questo dono così bello e prezioso che tu hai sempre cantato
nei tuoi versi e nei tuoi racconti. E poi… l’amore, quello vero, fatto di presenza e di cura, come hai
sempre detto tu! Eh, lo so, sarebbe stato tutto diverso! Magari adesso non saresti sola in questa
villetta, avresti potuto sposarti e avere dei figli, avresti potuto avere una vita normale! Ma non
avresti avuto una amica così fedele e presente come me! E magari… saresti una donna qualunque,
una come tante, e non scriveresti se quella volta cadendo non ti fossi rotta il dito del piede oppure
non fossi ruzzolata, come quell’altra volta tanti anni fa, giù per le scale. Anche lì, ti ricordi?, la
corsa affannosa verso l’ospedale! Sul serio, mi spiace che la tua schiena, in questi due ultimi anni,
sia stata colpita così ferocemente e che tu abbia persino rischiato di essere operata al tratto
cervicale. E quella volta che sei stata immobilizzata come una larva umana? Quando è stato, due
anni fa a gennaio?”. Giovanna, bevve la sua tisana, e poi disse: “Ma tu lo sai bene, Lara! Anche in
quel lungo periodo ci sei stata: più fedele del mio fidanzato, sempre presente, a ogni ora. Eri lì, tra
farmaci oppiacei per lenire il dolore, fra risonanze magnetiche, collari, iniezioni, flebo! Mi
imboccavano, ricordi? Non potevo nemmeno lavarmi da sola, né vestirmi, altro che capelli
scomposti! Non potevo stare né seduta né a letto, né potevo camminare. Un delirio incompreso di
atrocità senza fine. Quasi due anni, Lara, quasi due anni. E non mi hai accompagnato sempre tu in
tutte quelle sale di attesa? Non mi hai spiato di soppiatto quando mi spogliavano per infilarmi sotto
la doccia e mi lavavano come una bimba inerme e io piangevo disperata e avvilita per i dolori che
nessun farmaco riusciva a farmi sopportare? E non c’eri tu quando per lunghi mesi ho dovuto
indossare il collare che mi irrigidiva tutti i muscoli e non mi dava tregua pure nutrendo la speranza
che le ernie a poco a poco rientrassero, considerati la giovane età e l’esiguo peso, e che una mano
benevola dall’alto mi togliesse dal capo quella spada di Damocle? Non c’eri ancora tu quando non
bastavano mesi di congedo per riprendermi e la malattia, oltre che le ossa e i muscoli, mi divorava
anche lo stipendio, tanto si era ridotto, che se non ci fosse stato mio padre a comprarmi i farmaci
sarebbe divenuto un lusso che non avrei potuto permettermi?” La voce di Giovanna diventava
sempre più tagliente e stizzita. A un certo punto era lei ad incalzare Lara e non viceversa. “E, –
aggiunse – non ti ricordi che tutto questo accadeva sotto gli occhi increduli di chi mi guardava?
Sotto gli occhi di chi ha sempre creduto fossi cosa: Ansiosa? Preda di attacchi di panico?
Ipocondriaca? Pazza? E – proseguì – sospettarono perfino che fossi una sorta di Principessina sul
pisello e che mi comportassi così per attirare tutte le attenzioni su di me, per risparmiarmi la fatica
di lavorare, per il mio poco senso del dovere e perché io non amassi davvero vivere tutta presa dal
mio pan-dolore! Cosa altro, Lara? Tu che sai tutto di me, dimmi! Cosa hanno creduto fosse per una
vita intera questa patologia?”. Lara la guardò, ormai senza più alcuna compassione, dritta negli
occhi che divennero di brace: “Non lo so – disse – cosa hanno creduto, Giovanna. Ma di sicuro, una
malattia che non si vede, non esiste; non esiste per nessuno! E forse hanno creduto che tu abbia
fatto di tutto, una sorta di gioco perfetto, nella tua vita, per avere l’amore che ti è sempre mancato,
le attenzioni, i privilegi, un lavoro vicino casa rubandolo ad altri! Certo, questo è poco ma è sicuro,
non ti hanno mai creduto. Nemmeno dopo gli svenimenti, le cadute prima da sola camminando per
strada, poi dalle biciclette e dalle scale, e ancora gli incidenti in macchina e i lividi ovunque. Anzi,
visto che svenivi in continuazione, piuttosto che avere una brutta ernia cervicale, una volta hanno
creduto che tu fossi incinta! Che ridere! Me ne sono fatte di risate, credimi, in questi anni, quando la
dose rincarava e tu imperterrita e indomita ti rialzavi, inghiottendo bocconi amari, umiliazioni,
svilimenti, abbandoni, tradimenti e, senza mai arrenderti, ti ricomponevi il cuore, l’anima, il corpo
distrutto e tornavi a sorridere. In verità, credevo che prima o poi ti saresti fermata stremata e mi
avresti lasciato campo libero. E invece niente; neppure adesso! Ho cercato di toglierti tutto: dignità,
famiglia, lavoro, amici e di scatenarti addosso giudizi, condanne, soprusi di ogni genere… ma tu
niente. Immobile, sotto tutti i colpi che ti sferravo! E allora io infierivo di più e ti bastonavo
ovunque, ti umiliavo di più in ogni modo, rubandoti amici e amori (perché una ammalata, che non è
in grado di badare a sé stessa, come fa ad essere buona per gli altri? Insomma una zavorra, un peso
è!), ti umiliavo di più! Il lavoro poi, sì lo ammetto, ho fatto di tutto per fartelo perdere… ma tu
niente, neanche lì ti sei scomposta. Suvvia, parliamo ormai a carte scoperte: Giovanna, sono qui per
dirti che io non mi fermerò mai, non mi arrenderò mai, io non potrò che peggiorare con il tempo e
tu lo sai benissimo. Sono qui perché, magari davanti a una tisana ai frutti rossi, questa volta
possiamo trattare la tua resa. O vuoi che continui a tirarti calci e pugni, a farti cadere e a farti
schiantare ovunque ancora e ancora? E oggi un piede, domani una costola, e poi il collo, i nervi, i
muscoli, le ossa e a poco a poco tutto il resto? Vuoi davvero che io continui indisturbata e invisibile
mentre gli altri non sanno nulla di quello che realmente ti accade e, per giunta, non solo non ti
credono ma finanche ti prendono in giro e ti giudicano una bugiarda seriale, una pazza, una
egocentrica, una ipocondriaca, una narcisista manipolatrice, una persona con dinamiche disturbate?
Povera e ingenua donna! Dai, fermiamoci qui. Firma la tua resa, Giovanna. Un corpo solo per due
non va! E io non ho più alcuna intenzione di dividerlo con te oltre. È da quando sei una bambinetta
di otto anni che ti covo dentro in silenzio, attendendo il momento opportuno per esploderti e
prendermi tutto! Tutto io, capisci? Ma ti sei trovata perfino la scrittura, per sopravvivere! Proprio
non ti arrendi. Ora mi sono davvero stancata di sopportare la tua forza vitale, la tua disdicevole
grinta, la tua tenacia, la tua insopportabile resistenza e resilienza. Mi sono rotta! Voglio ciò che mi
spetta! E non un corpo a metà da con-dividere con te, che poi non fai altro che celebrare la vita e la
bellezza. Con quale coraggio, mi chiedo io? Sei una sfrontata, una visionaria, tu! Ma dove la vedi
tutta questa bellezza, nella tua vita? Se ti ho tolto a poco a poco, come fossi un roditore, tutto?”.
“Lara, – disse Giovanna – lo so che non provi né pietà né compassione alcuna per me e che non ti
capaciti di come io possa, pur strisciando per casa, continuare a cantare e a celebrare la Bellezza e
l’Amore, a fare il mio mestiere, nel migliore modo mi è possibile, con tutta la passione che ho
dentro. E lo so che non ti capaciti del fatto che io non mi arrenda e non rinunci ad avere un futuro e
una famiglia. So bene che, anno dopo anno, hai alzato il tiro sempre di più! Ti conosco pure io,
esattamente da quanto tempo tu conosci me. Ma non esiste alcuna resa che io oggi possa firmarti;
mi spiace deluderti. Potrai togliermi ancora tutto ciò che vuoi e forse pure se mi togliessi le mani, io
troverei un modo alternativo per scrivere, con gli occhi o non so con che cosa. Sei stata una perfetta
ladra di vita e non posso che farti i miei complimenti. Sei stata impeccabile e tenace almeno quanto
me. Non ti sei arresa mai in tutti questi anni e pezzo dopo pezzo sei riuscita a togliermi quasi tutto.
Ma una cosa non potrai mai togliermi fino al mio ultimo respiro: il mio amore sconfinato per la vita
e per le parole. Arrenditi tu! Magari fra una decina di anni la scienza troverà un protocollo di cura
per te; magari alla fine piuttosto che il mio corpo essere anche il tuo, tornerà a essere solo il mio;
magari i dolori saranno più gestibili e io cadrò di meno, barcollerò di meno, mi romperò meno ossa,
metterò meno collari, prenderò meno farmaci e magari tu cesserai di essere la bastarda ladra di vita
che sei per milioni di persone come me al mondo. E io continuerò a scrivere! E allora, puoi giurarci,
racconterò tutta la verità su di te; allora sarai riconosciuta per quella che sei: ‘una bestia senza
cuore, una nemica invisibile ma reale, un calvario e una bestemmia’; allora dovrai smetterla di
tormentare i corpi di tanti esseri e di renderli larve, di togliere loro tutto: dignità, voce, amore, figli,
lavoro, casa. Allora, Lara”. Lara la guardò sempre più inferocita. “Sappi – disse – che, se anche
questa volta nello schianto ti ho risparmiato la vita, sappi che prima o poi dovrai cedere. Dieci anni
sono un tempo lungo; tu spera nella Scienza, fallo pure! Ma nel frattempo, come non ti vuoi
arrendere tu, non mi arrenderò nemmeno io. Non lo faccio per cattiveria, Giovanna, come forse
pensi tu, o come pensano gli altri: semplicemente è nel mio DNA. Mi hanno programmato per
essere così. Se forse lo capissi, ti arrenderesti una buona volta e mi lasceresti fare il mio lavoro in
pace. E invece tu mi dai filo da torcere! Con te è una guerra continua, perché non indietreggi, non
chini il capo, non implori pietà, non molli mai, qualunque cosa io ti faccia. A volte mi togli perfino
il gusto o il piacere di vederti così pallida ed emaciata, perché, poi, trovi sempre quella
insopportabile forza di buttarti sotto la doccia, di vestirti, imbottirti di farmaci, truccarti e metterti
quegli odiosi brillantini e uscire a testa alta nel mondo. Mi fai proprio pena. Per questo, oggi avrei
tanto voluto amichevolmente che tu mi avessi firmato una resa. Te ne saresti rimasta a letto o sul
divano, vedi tu, per il resto del tuo tempo e io mi sarei presa il tuo corpo per intero finalmente.
Piuttosto che essere coinquilina sarei diventata proprietaria e l’avremmo finita qui, dopo ventotto
anni che va avanti questa storia. E invece ho capito che nemmeno dopo quello che ti è successo sei
disposta a cedere. Vedi, ti avevo pure portato i dolcini, ti avevo preparato la tisana… e il tuo,
invece, è stato un disarmante no! Giò, io devo lasciarti adesso; ho altre visite in programma per
questo pomeriggio, ma la tua mi stava particolarmente a cuore. Che vuoi che ti dica? Buona
fortuna? In bocca al lupo? Non ne sono capace; non è nel mio ruolo! Se un giorno però non dovessi
essere programmata per essere Lara, io vorrei essere come te. Solo questo posso dirti”. Giovanna,
barcollando più che mai, si alzò dalla poltrona e accompagnò Lara alla porta. La guardò negli occhi
di fuoco che aveva e con una smorfia mista di dolore e di orgoglio le disse: “Grazie! Io invece, a
differenza tua, se dovessi rinascere un’altra volta, vorrei essere ancora Giovanna. E se dovessi
incontrarti di nuovo, nella prossima vita, e questa volta riconoscerti prima, avrei più strumenti,
risorse e possibilità per arginarti, per contenerti in tempo, per gestirti meglio. Ma, giuro, non avrei
mai paura di te. Sei stata e sei, la peggiore ladra di vita che io potessi incontrare ma non ti odio più
da tempo ormai. Lo so che sei stata programmata per essere questo, una Patologia. Ho imparato
tante cose su di me proprio grazie a te. E no, non firmerei nessun foglio di resa neanche dovessi
incontrarti altre centinaia di volte. Grazie per il tentativo che hai appena fatto ma ora vai pure,
voglio riposare. Tanto lo so che ci rivedremo presto, per cui… arrivederci Lara. Continua a fare
bene il tuo mestiere ma non stupirti se io continuerò a fare bene il mio. Anche io sono stata
concepita o programmata, come dici tu, ma contrariamente a te per amare la vita, per celebrarne la
bellezza oltre ogni dolore e per cantare l’amore. Vedi neanche io lo faccio apposta. È nel mio
DNA”. Giovanna chiuse la porta e si trascinò, come se l’avessero bastonata ovunque senza pietà
alcuna, al P.C. Scrivere. Anche solo le fosse rimasto questo, avrebbe avuto ancora senso vivere.