‘Signori, sono qua oggi e vi ringrazio per il dono che mi avete concesso. Perché la parola è dono. Sono qua e vi ringrazio per la possibilità di stare con voi insieme a colleghi, alunni, amici, volti e occhi che guardo con dolcezza e che a loro volta mi guardano e mi rassicurano. Oggi sono qua ma non parlerò da docente, da educatrice, non parlerò per nessuno dei ruoli che ricopro nella vita sociale, professionale, politica e istituzionale. Ho deciso di parlare semplicemente da donna. Donna nuda e scalza anche se mi vedete vestita e con i miei accessori, i tacchi, gli orecchini, i bracciali, il trucco, gli anelli. Voi mi vedete vestita, sì, invece sono nuda davanti a voi e ho deciso di portare solo con me la mia voce e le mie parole. Così, da donna, ho deciso di raccontarvi una storia, perché, si sa, le storie piacciono ai piccini e agli adulti e hanno un grande potere, quello delle parole. E le parole hanno da sempre il potere di vincere il silenzio arrogante di chi pretende di mettere a tacere tutto e tutti, solo perché si sente più forte, solo perché con violenza bruta pretende di essere “uomo” a cui tutto è concesso pur violentando la verità, le menti, i cuori e i corpi. La mia storia si intitola così: “Rosso d’amore, non di violenza”.
“Vi era una bimba che viveva in un piccolo paesino in una provincia ai confini di una isola bella e piena di zagare, mandorli, agrumi e mare. La chiamavano la terra del sole, la terra baciata dagli dei. La bimba era piena di sogni, amava scrivere, leggere, studiare, andare a scuola, amava quel paesello e pensava che il suo mondo fosse tutto racchiuso lì. Ma era appunto una bimba, non un bimbo. A scuola iniziò subito a capire che dava fastidio la sua voce così schietta e franca, il suo modo di dire la verità senza paura. A un certo punto le fu fatto capire che certe cose non poteva dirle, perché non potevano essere dette da una bambina, non si addicevano alle sue fattezze femminili. Era meglio tacere e lasciare che fossero i compagni maschi a parlare, ad avere l’ultima parola, ad avere sempre ragione. A casa le dissero che non andava bene il suo modo di essere così libera e forte, anticonvenzionale e che poteva fare scalpore che una ragazzina uscisse da sola con dei ragazzini, non si addiceva questo comportamento a una ragazzina di famiglia “per bene”. La bimba quindi divenne ragazza e la ragazza, donna. E alla donna fu detto che certo era brava ma poiché era anche graziosa, a un certo punto, doveva scegliere se essere bella o brava, intelligente o affascinante e che forse quel rossetto rosso era troppo rosso, quei brillantini sulla scollatura troppi luminosi e appariscenti, che quella minigonna era troppo corta e che, se poi si era laureata con il massimo dei voti, si era specializzata e aveva vinto un dottorato di ricerca, chissà forse era perché i docenti universitari, quelli uomini, si sa, sono da sempre sensibili al fascino femminile. Le fu detto che per essere una professionista preparata e credibile doveva rinunciare alla sua “eccessiva” femminilità, doveva tenere un profilo basso. Senza gesticolare troppo, senza eccesso di occhi addosso, senza calze troppo sexy, se era una professionista davvero brava poteva andare fuori anche senza trucco, senza unghie con lo smalto, senza quello sguardo da cerbiatta. La donna divenne anche madre e dal marito le fu detto che se voleva essere madre doveva lasciar perdere le velleità di fare l’artista, la scrittrice, la poetessa, la donna impegnata nel sociale. La madre era madre e una madre certe cose non le fa. Iniziò il decalogo del buon comportamento. Non c’è bisogno di social, né di selfie, né di libri scritti e pubblicati, né di format in cui si parla di patologie vere e invalidanti, non c’è bisogno di impegnarsi in politica e di avere i riflettori addosso. Non c’è bisogno di tingersi i capelli di un colore troppo acceso, anche il trucco deve essere moderato, non c’è bisogno di fare interviste, di scrivere articoli, di andare dall’estetista con tutta quella insistente frequenza. Una mamma è mamma se fa solo quello e lo fa bene, rinunciando ai propri spazi, alle proprie passioni, al proprio tempo di riposo, perfino alla cura del proprio corpo. E non si parte con le amiche per fare dei viaggi, non si sta fuori in giro per i locali se no si rischia di essere “poco di buono”. Le donne non fumano, non bevono, non dicono parolacce, non gesticolano, non parlano ad alta voce. No, le donne non pensano e se pensano stanno zitte. Lavano i piatti, stirano le camice, rifanno i letti, rassettano la casa, sono le prime ad alzarsi e le ultime ad andare a dormire. E se poi le donne mostrano di essere così disubbidienti, sono considerate indegne di fare la madri. Perché una vera madre deve scordarsi di essere donna. No, la bimba, la ragazzina e la donna, tutte e tre coese e forti dissero “No!”. Non si sarebbero piegate a nessun ricatto psicologico né fisico e non sarebbero scese a nessun aut aut. Allora cominciarono gli svilimenti, le mortificazioni, la valanga di cattiverie. Allora iniziarono le violenze subdole, quelle fatte attraverso il linguaggio del senso di colpa. E poi iniziarono le minacce, le manipolazioni e ancora i calci e i pugni alle porte e gli oggetti tirati per casa, gli insulti, le parolacce, le denigrazioni come figlia, come madre, come professionista, come donna. Ma la donna disse ancora una volta “No!”. La sua unica colpa fu non cedere. E così arrivò la crudeltà maggiore. Le fu detto che, poiché soffriva di una patologia cronica e invalidante, non poteva fare la madre, non ne era all’altezza. E credendo che sotto quel ricatto estremo finalmente lei si sarebbe piegata e avrebbe subito pur di non perdere il suo unico motivo di vita e gioia: la figlia, fu flagellata e violentata nel suo affetto più intimo e profondo e comprando anche la verità e manipolandola ad hoc, fu dimostrato che lei non era una buona madre e le fu tolta la figlia. Ma neanche davanti quell’estremo vile sopruso la donna si piegò. La donna di cui vi racconto sa che si può essere tante cose nella vita, figlie, madri, compagne, professioniste, amiche, colleghe e che non è necessario operare una selezione delle parti. Non è necessario scegliere se essere brave o belle, madri o mogli, donne o professioniste. La donna di cui vi racconto sa che l’amore non è ricatto, svilimento, sopruso, vendetta, tradimento e che non parla il lessico della colpa e della condanna, del giudizio e della violenza fisica e psicologica. La donna di cui vi racconto sa che può essere una ottima madre pure con una patologia invalidante e può essere una ottima professionista e una buona persona. Perché questa patologia non le toglie neanche una molecola della sua capacità di amare, di esserci e di potere prendersi cura degli altri. No, la patologia non le toglie nulla, anzi le aggiunge la capacità di sentire di più e di sapere come il dolore dell’altro non è solo dell’altro ma è anche proprio, perché nessuno è degno di essere chiamato uomo se non sente la sofferenza degli altri come propria. Alla donna di cui vi racconto hanno cercato di togliere tutto, lavoro, patente di guida, casa, figlia, amore, famiglia. Ma ancora una volta, lei ha detto “No!”. Non è indietreggiata, non si è arresa, non ha ceduto, non si è venduta e non ha mai avuto paura di dire la verità. Sì; è stata abbandonata, vilipesa, mortificata, ferita, tradita, giudicata, condannata e forse mai sarà assolta ma ancora una volta ha detto NO. E mai acconsentirà a che la forza bruta e feroce prevalga sui suoi ideali e valori, sul suo legittimo desiderio di essere amata, desiderata, apprezzata, voluta bene e protetta. Mai si sentirà in colpa perché sa parlare bene gesticolando o scrivere bene, perché ha gli occhi da cerbiatta o i brillantini sulla scollatura, i capelli di un colore acceso o la passione dei selfie. Non cederà alla strategia e al ricatto del silenzio perché ha scelto le parole. Ha scelto di essere vera, autentica, leale e non conosce le menzogne per far credere al mondo falsamente perbenista che tutto vada bene. Perché, la donna di cui vi racconto, ha ereditato dalla nonna paterna il coraggio, la forza e la responsabilità di essere una donna, non un oggetto, una merce, una bambolina di silicone, non una proprietà privata. Resta e resterà libera, vera, autentica e mai sarà in vendita.
Ecco, signori, questa è la storia che volevo raccontarvi e non importa se sia la storia di Bia, di Susanna, di Francesca, di Miriam o di Caterina. Non importa se sia frutto dell’estro narrativo di una donna che ama scrivere o una vicenda amaramente e ferocemente vera e autentica. È la storia che ho scelto di raccontarvi e ognuno forse potrà ritrovarci pezzi propri, parti del proprio viaggio di vita. Ognuno potrà provare profonda amarezza nel cuore e infinita tristezza perché ancora oggi, nel 2021, siamo qua tutti insieme, a raccontare e ascoltare una storia così. E a dire e non ci stancheremo mai di dirlo: Rosso d’amore non di violenza’.