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‘Devastazioni. Il femminismo a casa mia’. Rubrica di Daniela Gambino

Chi il femminismo non lo conosceva dai libri, doveva inventarselo. Infatti a casa mia, alcune di noi, lo fecero: lo inventarono, lo avvertirono, lo misero in pratica come bisogno. Per me era mia nonna che lavorava. Mia madre che prende la patente. Mia sorella più grande che lotta per uscire da sola con il fidanzato. Mia cugina che si sposa a 15 anni e lotta per il sacrosanto diritto di separarsi. Erano battaglie così, quotidiane. Per me è la rete delle donne, fatta da zie e vicine di casa, che scambiavano favori, babysitting, tenevano chiavi, sorvegliavano picciriddi (e vicinato dietro le persiane) e sfornavano torte.

Per diventare donna, spesso mi sono scontrata con altre donne che avevano fatto proprio, cioè interpretato, il pensiero maschile. Sì. Sono le stesse donne a censurare. A volte. Lo faceva mia madre, se vestivo in maniera provocante e uscivo con le amiche, senza fidanzato (che spesso si dice “sono uscite da sole”, pure se sono in otto, ma se sono donne risultano sempre sole, lo notai una sera, a Roma, ci avvicinarono dei tizi e domandarono “dove andate da sole?”, vale a dire: non accompagnate da un uomo?), mi chiedeva “ma lui non ti dice niente?”. Cioè, non ti proibisce di essere sexy lontano dal suo sguardo protettore? Pareva che il pensiero di questo ipotetico lui, fosse più importante del mio. Ma può essere mai?

Pure alle cene fra amiche. Il maschio pare al centro della discussione, monitorato in tutto, se scrive, se parla, se mangia. Pare che se togliamo l’uomo come discussione, finisce che non sappiamo intraprendere un discorso nostro. Non è che la donna è antitesi dell’uomo. Non è che sviluppa una sua interiorità in contrapposizione all’uomo. La donna ha un discorso suo da portare avanti. Eccome. Non è la costola, non è un uomo senza pisello, non l’invidia perché ha un sacco di cose da farsi invidiare di suo. Appena nata, appena scente, come si dice dalle mie parti, ha una domanda da porsi, che in sintesi è: “io, cosa voglio? Come voglio vestirmi? Dove voglio andare? Come voglio muovermi nel mondo?”. Solo che, a questa domanda, si aggiunge un coro di voci, di proibizioni, divieti e piccole devastazioni, che spesso, arrivano da rappresentanti dello stesso sesso, che a loro volta, sono state azzittate, da altri uomini o rappresentanti dello stesso sesso, a loro volta azzittate…nié non se ne esce. Forse dovremmo andare indietro nel tempo e scardinare le cose. Vedere che non è tutto come ce lo raccontano, capire che le donne sì, convivono con gli uomini, con loro si confrontano continuamente, ma hanno un discorso, una storia da portare avanti valida quanto la loro, interessante quanto la loro, certo contiamo meno eroine (e basta co’ sto mito dell’eroe) cruente, ma in quanto a sentimenti, non ci batte nessuno e i sentimenti, cavolo, fanno girare il mondo.

I sentimenti sorreggono le donne nelle attese, quando sono incinte, quanto aspettano che i figli crescano, che gli uomini tornino dalla guerra, quando si innamorano e si convincono che il loro amore possa salvare chiunque, anche quello sbagliato.

Ma torniamo al femminismo a casa mia. Nonna Anna, la prima femminista inconsapevole di casa, lavorava in un ospedale, era lei quello a farlo meglio, nella sua coppia. Come me superava il metro e settanta, e nelle foto da sposa, anche se non si vede, stava a piedi nudi accanto al nonno.

Mia nonna Anna mi ha lasciato in eredità la pasta col sugo, certi spigoli del carattere e gli stessi zigomi. Alti e volitivi. Era la nonna materna. E i nonni si sa come sono. Coi genitori ci litighiamo, conflitti generazionali, ma coi nonni no, i nonni sono l’amore. Vanno verso il tramonto, cantando. Coi nipoti in braccio.

Coi nonni non litighi per guadagnarti la libertà, per come ti vesti. Perché hai idee rivoluzionarie, o almeno non lo fai nello stesso modo. I nonni, per te, sono gli anziani, se pensi a una ipotetica linea della vita, li immagini spostati in avanti, non convergono con un adolescente, perché, a quella stessa età, facevano cose troppe diverse dalle tue. O, almeno, immagini così, come se i sentimenti, o il desiderio, le passioni, non fossero sempre uguali.

La frase “come lo faceva mia nonna” è particolarmente inflazionata, fateci caso: non esiste ricetta televisiva, in pratica, in cui non si dichiari che trattasi di piatto cucinato “come lo faceva mia nonna”, perché chiunque la pronunci, il quel preciso istante, aspira a essere assolto sotto il profilo culinario. Se fai un errore o una variazione, è quella della nonna.

Sì, perché in quel momento non vedrai un semplice imbranato ai fornelli, ma qualcuno che sta cercando di riappropriarsi di un ricordo, di un profumo.

A occhio e croce non esiste italiano che non possa vantare una nonna chef. Siamo sicuri di onorarle in cucina? Di ricordarle come meritano? , tutte donne che hanno imparato a cucinare benissimo, nessuna di loro ha utilizzato l’ingegno per sviluppare altre abilità, fatto salvo giardinaggio, ricamo, sartoria?. Tutte donne che cucinavano con amore, aspettavano all’infinito mariti, figli e nipoti, speravano che il loro lavoro venisse riconosciuto con un complimento “miih, che buono”. Complimento che, spesso, veniva dimenticato.

Mi piacerebbe se la formula “come lo faceva mia nonna” venisse applicata in ambiti più ampi.

Leggo tutte le mattine, “come faceva mia nonna” , discuto alla pari con tutti, “come faceva mia nonna”, riesco a parlare di quello che mi fa soffrire, ad alleggerire i pesi del cuore, “come faceva mia nonna”, imparo a riconoscere i miei diritti “come faceva mia nonna”, lavoro e sono indipendente, mi costruisco idee mie “come faceva mia nonna” . Ecco, ogni tanto, mi piacerebbe molto che fossero rievocate così, le nostre nonne. La

mia per esempio, che ha lavorato tutta la vita (poi faceva anche un gran sugo, ma è solo una piccola parte della storia). Amava viaggiare, aveva un talento genuino per la poesia, adorava mangiare la pizza fuori, leggere fotoromanzi e aveva lottato per cambiare il destino del suo fratello minore (e lì, nel senso pratico e sbrigativo, mi ha insegnato l’amore).

Ricordiamole così, ogni tanto, senza condannarle in cucina, in attesa, con qualche cosa in forno. Pure lì, nella nostra memoria. Perché magari, le nostre nonne, sognavano un futuro diverso.

Daniela Gambino: palermitana doc, ha scritto una dozzina di libri, fra cui il saggio Media: la versione delle donne. Indagine sul giornalismo al femminile in Italia, uscito per Effequ; per caso è diventata una attivista etero per i diritti LGBT (per caso, perché i diritti umani sono degli umani e basta) con il saggio 10 gay che salvano l’Italia oggi, ha scritto il romanzo La perdonanza (entrambi i volumi pubblicati dalla casa editrice Laurana). Gestisce su facebook il blog @Comunicarepop. È in libreria con Conto i giorni felici, edito da Graphe.it, e sta lavorando al saggio Devastazioni, il femminismo a casa mia.

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