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Licia Cardillo recensisce “Trame Tradite” di Bia Cusumano

Nel significato figurato trama può indicare una macchinazione, maneggio, raggiro, traffico, tresca, nell’industria tessile, invece, è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto e non può esistere senza l’ordito, cioè l’insieme dei fili che costituisce la parte longitudinale del tessuto nella quale essa s’inserisce a formare l’intreccio e a sostenerlo. Così nel Dizionario Treccani.

Che cosa è in fondo – metaforicamente – la vita se non una combinazione di trama e ordito, un tessuto nel quale il nostro agire, dettato da sentimenti, aspirazioni, bisogni, fallimenti si incrocia con aspirazioni, bisogni, attese, fallimenti di altri, cioè con l’imprevedibile? In questo contesto si muovono le storie di Bia Cusumano, in una sorta di branloire, direbbe Montaigne, in una giostra impazzita, nella quale tutto avviene senza tener conto del progetto di vita che ciascuno di noi ha disegnato per sé. A questo punto si potrebbe tirare in ballo il caso, il destino, la volontà di Dio per chi crede, considerando che le trame della vita umana, nella maggior parte dei casi, risultano tradite. 

Alcuni mesi fa, ho avuto modo di recensire la silloge poetica di Bia intitolata Come la voce al canto e, nonostante la diversità dei temi trattati, la temperie dalla quale nascono i racconti di Trame tradite è molto simile. Passando però dalla poesia alla narrativa, Bia espande il campo della sua indagine, portandola oltre i confini della propria esperienza, anzi moltiplicandola per declinare al plurale esistenze alternative. Chi scrive infatti ha il privilegio di raccontare storie di altri come fossero proprie e le proprie come fossero di altri e, attingendo  non solo al pozzo profondo del proprio io, ma anche a quello dell’umanità, ha un ventaglio di possibilità vastissime. Vana pertanto si rivela la curiosità del lettore di scoprire chi si nasconde nel protagonista o nel personaggio di un racconto, dietro il quale c’è sicuramente l’autore con la sua sensibilità, il suo vissuto, le sue fragilità, la sua energia, ma c’è anche il vissuto che egli ha rubato ad altri spacciandolo per proprio e mascherando il proprio, affibbiandolo ad altri. Lo scrittore è come un mago che imbroglia le carte, falsifica la realtà, tanto che meriterebbe – come diceva Consolo – le pene dell’inferno.

Il consiglio perciò che mi sento di dare al lettore è quello di lasciarsi catturare dalla storia senza andare oltre. Se il personaggio che viene messo in scena è ben delineato, è altrettanto reale di quello vero, specie se l’autore riesce a restituircene la dimensione più intima, le vibrazioni profonde, cioè la vita, quella che viviamo quotidianamente e che sentiamo battere dentro. Come fa Bia in questa raccolta.

Spesso i mattoni con cui si costruisce una storia sono relitti, scarti, rovine, destinati a rifiorire però, come quei ceppi di quercia e terebinto sopravvissuti alla distruzione di Gerusalemme di cui parla il profeta Isaia. E potremmo dire che l’autrice, di ciò che resta, si serve “come materia prima”, per farne “un seme santo, in un gesto che appare luttuoso e redentore”. Cosi scrive  Massimo Recalcati, recensendo il saggio Prologo celeste di Vincenzo Trione, a proposito dell’architetto Anselm Kiefer che, cresciuto tra le rovine della seconda guerra mondiale, delle macerie si serve per creare “piccole forme architettoniche”.

È brava Bia a restituirci la dinamica dei rapporti più intimi, a partire da quelli tra genitori e figli a quelli tra uomini e donne nella realtà contemporanea, a farci rivivere, attraverso la narrazione, esistenze che si dipanano come un tessuto imbrogliato di fili che si aggrovigliano o si spezzano, spesso, per una sorta di bulimia esistenziale, un’ingordigia che comporta instabilità, consumismo di emozioni e sentimenti, superficialità, inconsapevolezza, incapacità di metabolizzare le esperienze. È una realtà impermanente quella che scorre sotto i nostri occhi leggendo i racconti. È, potremmo dire, la vita stessa dove, a ogni azione corrisponde una reazione, e dove, essendo tutto legato da fili, quando se ne scioglie uno, il tessuto si straccia, si lacera e si sbrindella. Ogni storia che l’autrice racconta ci porta a riflettere sulla mancata percezione del tempo da parte dei contemporanei, sull’incapacità di praticare l’attesa, di sperimentare la pausa che dà la possibilità di fermarsi nel vortice del vivere, di interrogarsi, ma anche di volgersi indietro e di capire a che punto si è arrivati e dove si vuole andare.   Questa sindrome riguarda soprattutto i giovani che si rivelano immaturi, insicuri, instabili, impauriti dal potere che le donne, giorno dopo giorno, si ritagliano a fatica con le loro forze e si muovono come falene impazzite senza metabolizzare il vissuto, ma riproponendolo come se fosse possibile ricostruire la relazione che precedentemente hanno distrutto. I giovani contemporanei soffrono la distanza che li separa dalle donne: riescono a dominarle fisicamente, ma ne sono a loro volta dominati.

In un racconto intitolato Centoundici gradini, così dice Riccardo alla sua ex, Giuliana: “Ero un ragazzino, non ero in grado di stare con te. E tu appartieni a un altrove in cui io mi sono perso. Lo so: io non ho saputo starti vicino come desideravi tu, come era giusto, ma non mi hanno insegnato la fedeltà, l’appartenenza. Non sono cresciuto nella verità”.

Che significa crescere nella verità se non essere avviati a cogliere, sin dall’infanzia, gli aspetti contrastanti della vita: gioia, dolore, fallimenti e successi e porli sullo stesso piano e dare loro un senso? Che significa se non prepararsi a resistere?

Ed ecco che cosa risponde lei: “Ti ho fatto da madre, da sorella, da amica, da compagna, da amante, da collaboratrice. Mai gelosa o invidiosa. E tu invece ti vergognavi di me, mi tenevi nascosta, come fossi cosa: una cenerentola, una poco di buono? Non mi capacito. Mi sono presa cura di te, come fossi un bimbo, ho annullato e sacrificato tutto per te.

 E, nello stesso racconto, è sempre lui che parla: “Forse, ti sei innamorata sul serio di quest’americano”. Non è un dettaglio di poco conto che l’uomo di cui lei si è innamorata sia un americano. Ed ecco la risposta: “Victor mi dona pace e stabilità, tra le sue braccia sono al sicuro e non si è mai messo, né mai si metterebbe in competizione con me. Non cerca di cambiarmi, mi ama con le mie stranezze e i miei vezzi”

Una competizione, dunque tra lei e lui. Per conquistare il palco, la ribalta, le luci.

A questo punto viene in mente Sciascia che attribuiva molti danni del sud allo strapotere della madre mediterranea con Candido, il protagonista del suo Sogno fatto in Sicilia, sganciato da qualsiasi legame affettivo e non inquinato da condizionamenti famigliari o sociali e viene da chiedersi se le donne contemporanee continuino ad allevare i figli maschi come qualcosa di prezioso, a covarli come nel passato, a schiacciarli con il loro amore possessivo, lasciando alle figlie femmine un ruolo secondario che paradossalmente le rende più indipendenti, più versatili, capaci di organizzare la loro vita, e affrontare le difficoltà che la vita stessa mette sul loro cammino. Se fosse così potremmo dire – in un gioco di parole – che il patriarcato è figlio del matriarcato, nasce dal privilegio in cui è cresciuto il maschio e che affonda le radici soprattutto nella cultura mediterranea, erede del mito della Grande Madre. Il maschio vuole le luci tutte per sé.

Nei racconti di Bia, due poteri si scontrano: quello fittizio dell’uomo e quello reale delle donne. Basta niente per togliere il velo alla verità e portare alla luce i tarli che rodono il tessuto di una relazione sbilanciata. E quando ciò avviene, l’uomo rimane nella sua nudità esistenziale, nella sua fragilità che trabocca di rimpianti incolmabili, di rivendicazioni, ma anche di promesse. È questa realtà che Bia mette sotto la lente del suo microscopio. I suoi racconti riflettono come uno specchio la realtà odierna, frantumata, sfilata come un tessuto tarlato. “Che colpa ha lo specchio se i nostri nasi sono storti?” scriveva Sciascia riprendendo Gogol. Lo specchio è solo un tramite, non fa che riflettere ciò che ha davanti.  E questo ha fatto Bia.

Un altro aspetto da evidenziare in questi racconti è il valore della memoria. Recuperare la memoria significa fare i conti con il passato, con quelle ferite che la vita ha aperto nella carne viva, quegli strappi dolorosi che hanno lacerato le trame esistenziali. E mi riferisco al rapporto malato tra madre e figlia al quale Bia dedica dei racconti laceranti, che le permettono di valorizzare il ruolo del padre accudente che colma vuoti, indica il rispetto delle regole e apre al mondo. Punto di riferimento per chi sta costruendo la propria identità.

Ma la memoria viene a riproporre anche i rapporti più equilibrati del passato, quando ciò che univa era anteposto a ciò che divideva, quando le parole erano centellinate per lasciare spazio ai gesti, agli sguardi, ai sorrisi, quando il linguaggio del corpo era più potente di qualsiasi altro mezzo espressivo.  E, a questo punto, mi piace ricordare un fotogramma che mi ha colpito profondamente e che riguarda il dissidente russo Navalny nel momento in cui, dopo essersi salvato dall’avvelenamento, atterrato a Mosca, sull’aereo, scopre che lo arresteranno. E la moglie, per salutarlo, gli sfiora la guancia con una carezza leggera, come se avesse voluto cacciare via qualcosa che adombrava il volto dell’amato, un gesto che somiglia a una benedizione, a un commiato doloroso, che lei teme definitivo e poi lo segue con lo sguardo come se lui si portasse via il suo cuore. Non una lacrima, non una parola. Solo quel gesto che vale il sacrificio di una vita.

Ai nostri giorni, sembra essersi perduto il valore della tenerezza, che è attenzione a chi ci sta accanto, sguardo che travalica la fisicità e penetra nel cuore dei pensieri, dei bisogni, delle attese dell’altro e si fa sintonia e sinfonia con chi ci sta accanto. Recuperare la tenerezza vuol dire salvaguardare la propria umanità perché la tenerezza è il contrario dell’accanimento, del perseguimento cieco di un fine che ignora il male che si lascia dietro. 

Nella giostra impazzita che è la vita, per Bia, la pausa è data dal sogno che viene a interrompere il flusso frenetico del tempo attuale e proietta sullo schermo un altro tempo – quello che appartiene al passato – dal quale affiorano figure scomparse che nei racconti assumono consistenza reale. “Sì, vinnimu per i limoni. Per ricordarti a chi appartieni” dicono i nonni alla protagonista del primo racconto. Quando appaiono, è come se una luce si accendesse dall’oro pallido dei frutti che hanno in mano, come a connettere umano e  trascendente. Sono figure cariche di tenerezza, vengono a segnare l’appartenenza, a rinsaldare radici, a curare ferite mai rimarginate, a carezzare il dolore, a invitare alla speranza, a guardare, malgrado tutto, al futuro. Si pongono come i Lari della casa.  Sono venuti a ribadire che nella vita niente è per sempre, che tutto ha un principio e una fine, ma anche un altro principio, che alla morte segue la rinascita, al buio la luce, al dolore la gioia, perché c’è un tempo per ogni cosa, come si legge nell’Ecclesiaste, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per seminare e un altro per sbarbare il piantato, un tempo per buttare via i sassi e un altro per raccoglierli. Bisogna soltanto crederci. Sono venuti aricordare la circolarità dell’esistenza. Riportano ai miti greci, al mito di Proserpina e di Ade.

Quando Bia racconta il sogno, la scena è illuminata da bagliori caldi e da dissolvenze che lasciano dentro un languore di esperienze vissute e svanite. Il ritorno alla lingua materna, al dialetto siciliano, così essenziale, per la protagonista del racconto, è un modo per rivendicare l’identità: “Mi avete insegnato la bellezza, l’appartenenza, l’amore che profuma eppure non si vede e non si spiega. Mi avete donato la poesia delle cose semplici ed essenziali… Amunì è tardi, itivinni, sarò forte, ve lo prometto. Poi va spiegacillo a papà che in questo studio succedono sempre cose sramme». Le cose sramme sono lo spiraglio di salvezza, la via verso l’altrove per sfuggire alla morsa del presente. Coltivare la srammera è un modo per dare spazio alla visionarietà, alla poesia, alla magia della vita. Dovremmo imparare tutti, soprattutto le donne, a essere sramme, cioè anticonformiste, a far coincidere la forma che portiamo a spasso con l’essenza, ciò che siamo con quello che vogliamo e viceversa. Cioè un po’ streghe, come quelle che, nei secoli bui, imprigionate nei loro ruoli, sognavano di volare.

 Oltre al sogno, la metamorfosi: personaggi che sembrano reali con nomi, fattezze umane, senza preavviso mutano e si fanno altro, come nel racconto intitolato La ladra. Il male fisico, da persona accudente e premurosa, si fa nemico pronto a distruggere il misero corpo di Giovanna, nel quale si è insediato. È questo il modo, per l’autrice, di mettere una distanza tra la protagonista del racconto e la malattia, evidenziarne la doppiezza e la falsità, ma anche un mezzo per operare una sorta di trasmutazionedel dolore, dargli un senso, affrontarlo con energia, trattarlo come un avversario con il quale lottare ad armi pari e farne un seme santo. La sofferenza può toglierle tutto, tranne l’amore sconfinato per la vita e per la scrittura, che, anche da sola, può dare senso al vivere.

Desideriamo quello che possediamo scriveva Montaigne, per dire che la felicità non ci è infusa dall’alto, ma dobbiamo conquistarla, spesso attraverso il dolore.

ll rapporto di Bia con la scrittura, richiama il rapporto di ogni scrittore con le parole. Credo che la voglia di chiudersi in una sorta di bolla, di lasciare il mondo fuori, affondare dentro quell’universo e “lasciarsene cullare…” appartiene a tutti coloro che amano scrivere. “Le parole sono gli strumenti che consentono di appropriarsi della realtà, “così intime da poter essere solo amate e troppo in là per essere comprese”.  Così scrive Bia

Le parole sono i mattoni con i quali si può distruggere il mondo che non piace e costruirne un altro. Sono pietre miliari che segnano la distanza da ciò che vediamo.  Sono mezzi per fare entrare la realtà nella dimensione spirituale. Sono ponti verso l’altro, ma anche armi contundenti. Bisogna usarle con garbo, con moderazione per non far male e per non farsi male. C’è un limite all’uso delle parole. E il limite è l’amore dell’altro. Quando si ama, se ne dovrebbe dosare l’uso, come se fossero farmaci omeopatici, si dovrebbe essere più sobri. Si dovrebbe imparare a tacere, perché il silenzio è fatto di parole taciute.

Mi piace concludere il mio intervento con questo brano tratto dal racconto intitolato  Na sramera che, secondo me racchiude il senso del vivere: Sembrava che si dessero i turni. Mio padre, mia nonna, le parole. A turno nella grande giostra della mia vita, fatta di scrittura, alunni, lezioni di letteratura, visioni, sogni, ferite, tradimenti, amori franti e amori appena nati. Ma che importava? Eravamo stati concepiti per fluire, per evolvere, per mutare, custodendo nelle viscere del cuore, in gran segreto, la via di casa. Non potevamo essere fuggitivi eterni, nomadi senza mai fissa dimora. Salire e scendere da mille treni diversi senza mai giungere a una destinazione che sentissimo la nostra. Il segreto forse era viaggiare sapendo appartenere. Non come oggetti ma come chicchi di melagrana. Eravamo tutti diversi e uguali, tutti separati e uniti in un unico meraviglioso frutto duci e amaru, proprio come era la vita. Così venne a dirmi quella notte mia nonna. La vera sramera era stata rinascere come donna. Partorirmi nuova e intera. Rimettere insieme le tante parti, come i chicchi della melagrana. E sapere dove fosse casa.

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