Pubblicità

Pubblicità

Varie

Il miele della sua bocca

di Vincenzo Di Stefano

Quieti erano quei giorni d’inverno. Non v’era vento, né pioggia. E la neve, quell’anno, non s’era vista lì sulle basse colline che fanno corona al paese, solo aveva appena spruzzato di bianco le montagnole sull’altopiano, verso l’entroterra. Riandavo, placido anch’io, col pensiero, a quelle settimane che invece erano state furiose, d’un furore ottuso, come ottuso è il sentimento quando Eros lo comanda, e lo piega al suo volere, senza grande sforzo peraltro.

Aveva, Laura, occhi neri e lucenti come l’ossidiana. E quando schiudeva le labbra, denti d’avorio, che digrignava a volte a mostrarsi minacciosa, ad ammettere – senza accusa – la natura selvaggia che l’animava.

C’erano voluti pomeriggi interi di corteggiamento e serate di discussioni intense, prima che mostrasse qualche cedimento, prima che s’aprisse, prima che smettesse di frustrare ogni mio tentativo. «Romanticone insopportabile», mi irrideva puntualmente.

Una sera d’estate, usciti dal ristorante dove c’eravamo attardati a ciarlare, nello spiazzo che impediva alle vigne intorno di buttarsi nella strada che tagliava il pianoro, tra le cicale che stridule frinivano, ci eravamo fermati a guardare in alto, verso la costellazione del Cane maggiore, dove Sirio pareva brillare più del solito, lei davanti, io alle sue spalle. Le avevo stretto i fianchi con le mani. Lei si era girata e senza rendermene conto finalmente avevo assaporato il miele della sua bocca.

***

«Ma è piano di gechi».

«Dove?», chiesi inebetito.

«Sui muri, al soffitto, sono ovunque».

Ero rimasto sulla soglia, mentre lei si scostava disgustata. Entrai. Era proprio così. La grande stanza che faceva da sala da pranzo era diventata un rifugio accogliente per una nutrita colonia di gechi. Mi bastò un rapido giro per rendermi conto che la finestra del bagno era rimasta socchiusa, lo stesso la porta che dal bagno s’apriva sul corridoio.

Erano i primi giorni di maggio. La casa di campagna che stava nella vallata di Fiumetorto rimaneva chiusa per tutto l’inverno. D’altronde la strada che vi conduceva, nell’ultimo suo tratto era spesso impraticabile già dopo le prime piogge autunnali. Ma in primavera e per buona parte dell’estate, almeno fino alla vendemmia, era un’alcova perfetta per me e Angela. A vent’anni, spiantati entrambi come eravamo, non potevamo chiedere di meglio.

«Sono anche in camera da letto, sono ovunque», urlò lei.

Che fare? Desistere e tornare indietro? In auto ci eravamo scambiate troppe effusioni. La voglia ci scorreva nel sangue.

Allora pensai l’impensabile. E per anni me ne sono vergognato, oppresso dal senso di colpa. Presi una scopa in cucina e cominciai ad usarla per farli cadere e spingerli fuori. L’intento era di non fargli male, ma non sempre le intenzioni, anche le migliori, si realizzano. Uno, due, tre erano caduti sul pavimento senza vita. Si rischiava una strage di gechi innocenti.

Esclusi la possibilità di usare la camera da letto. Ce n’erano troppi. Era più facile liberare la sala da pranzo. Contando quelli caduti sotto i colpi della scopa e quelli che ero riuscito ad accompagnare fuori, ne restavano un paio. Fu un po’ faticoso, ma alla fine portai a termine l’operazione. Chiusi tutte le porte, per sigillare la stanza.

Angela mi guardava turbata. S’indovinava però una domanda nei suoi occhi.

Indicai il tavolo da pranzo al centro della stanza. Lei non disse nulla. Mi baciò e cominciò a spogliarmi e a spogliarsi. O forse fu il contrario. Ci stendemmo sul tavolo. Duro, freddo. Ma il desiderio poté più del disagio.

***

A Currìa, a Zafana, seguendo la strada per Borrania, non andavo da anni. Si allungavano, quelle terre, su un altopiano calcarenitico, poco argilloso, pronto ad asciugarsi dopo le rare piogge che cadevano. Erano suoli poco adatti ai vigneti. Vi si seminava frumento, soprattutto: il «Cappelli», dapprima, poi il «Creso», che negli anni Settanta un gruppo di ricercatori aveva ottenuto incrociando un grano messicano con un mutante del «Cappelli», irradiato con neutroni e raggi gamma. Un capolavoro di ingegneria genetica che aveva prodotto un frumento più corto, più resistente, ma soprattutto dalle rese sbalorditive. Nulla a che vedere con i grani antichi che lì nell’altopiano, ma anche nelle vallate di Fiumetorto, Dimisi, Gebbione, avevano fatto disperare i miei nonni. «Peggio che coltivare la segale», ripeteva uno. «Buono solo per darlo a mangiare alle galline», gli faceva eco l’altro.

Tra Zafana e il feudo successivo, Borrania, avevamo degli ulivi. C’era però una vasta porzione di terreno, in un rialzo, non sfruttato. Era il regno del sommacco e della macchia più disparata. Vi erano sudditi serpi e bisce, che si rifugiavano nelle crepe, sotto le pietre, abbondanti.

Bonificammo – io, mio fratello, mio padre, mia madre – in un pomeriggio di fine ottobre, armati di falci, seghe, seghetti, coltelli, forbici. Uno strame di sommacco, che a sera aveva formato un mucchietto sul quale io e mio fratello saltavamo come si fa, per oltraggiarla, sulla carcassa d’un nemico che s’è abbattuto dopo dura tenzone, maledicendo i turchi, che la spezia del sommacco – raccontava mia nonna – la usavano per condirci l’insalata.

A Zafana c’è ancora il vecchio carrubo solitario sotto il quale, bambino, all’ombra nella calura di giugno, mi riparavo a guardare la trebbiatrice che annaspava sul costone scosceso. E mi sembra di vederlo, mio nonno, curvo al tramonto, per la fatica e il peso degli anni, che si avvicina a me, mette una mano nella tasca dei pantaloni e tira fuori un involto di carta velina che avvolge un pezzo di formaggio duro, stagionato. «Lo vuoi?», mi chiede.

***

Erano passati un paio di mesi. E all’improvviso Laura era tornata fredda, distante, insondabile. In ufficio schivava ogni mio tentativo di approccio, sviava il discorso, lo troncava se solo l’abbozzavo. Rifiutava gli inviti ad uscire, a vedersi.

Non me ne capacitavo. E intanto sprofondavo nell’irrequietezza. Da un giorno all’altro, senza motivo, non avevo più accesso a lei.

Poi fu anche peggio. Diventò astiosa. Non mostrava più alcuna solidarietà umana nei miei confronti, alcuna simpatia. Mi feriva. Mi incolpava per delle questioni di lavoro. Mi accusava apertamente. Era impossibile starle dietro. S’era chiusa a riccio, immusonita come la prima volta che l’avevo vista, seduta alla scrivania, alla postazione che in ufficio era riservata ai principianti. L’avevo punzecchiata, ma lei nulla. Non mi aveva degnato di uno sguardo. Né l’aveva fatto nei sei mesi successivi. Un’estranea. Poi era andata a lavorare altrove e pensavo non l’avrei più rivista. Ma era tornata, dopo neppure un anno. Ed era cambiata. Aveva cominciato a parlarmi, ad avvicinarsi. Era un principio d’intesa.

Ma adesso eravamo tornati stranieri. Almeno, io lo ero per lei. O così mi pareva.

Poi un giorno mi disse: «Lascio Palermo, ho trovato un posto a Milano, vado a vivere lì». Fu una coltellata. Ma non ancora quella mortale. «E poi – aggiunse – vado a raggiungere il mio fidanzato».

Lasciò l’ufficio l’indomani. Nei giorni seguenti non rispose alle mie telefonate. Partì senza neppure darmi la possibilità di salutarla.

***

La pianura era innevata. Dal finestrino era un lungo stendersi di un manto bianco di cui non si intuiva il principio né la fine. Nello scompartimento c’era chi raccontava della nevicata eccezionale del 1985.

Avevo lasciato in anticipo un congresso a Rimini per rientrare a Palermo in tempo per la vigilia di natale. Ero riuscito a fatica a prenotare un volo per la sera.

Ci eravamo fermati alla stazione di Casalecchio di Reno, poco prima di Bologna. Dopo un paio di minuti eravamo ripartiti. E udii la sua voce. Il tempo passato – e ne era passato – non l’aveva cambiata. Mi alzai e mi affacciai sul corridoio. Angela caracollava – una borsa rossa, appariscente, a tracolla – mentre cercava un posto libero nella carrozza affollata. Me la ritrovai davanti. Il suo stupore, nel vedermi, fu pari al mio trasalimento di pochi secondi prima.

«Che fai qui?», chiese d’istinto.

«Potrei fare la stessa domanda a te», replicai.

Sorrise. «Insegno a Casalecchio, sto rientrando a casa, a Bologna, vivo lì da dieci anni, sono sposata, ho due figli». Poi mi fissò, socchiudendo le palpebre per mettermi meglio a fuoco: «Non sei cambiato», mentì.

***

Ero tornato al paese per vendere l’uliveto di Zafana. Un paio di giorni per sistemare tutto prima di rientrare a Palermo. Lì stavo preparando il trasloco. Avevo trovato finalmente un appartamento più grande alla Zisa.

Era anche più vicino all’ufficio di via Dante. Sarei potuto andare al mattino e rientrare alla sera anche a piedi.

Abbandonavo il mio alloggio alla Guadagna senza grandi rimpianti, lieto peraltro di lasciarvi quello che era stato un collega d’università e che da tempo mi era insopportabile. Un perdigiorno che vagheggiava di rivoluzioni proletarie dall’alba al tramonto, che s’era fatto crescere una barba alla maniera di Che Guevara e aveva uno sbalorditivo – e per me incomprensibile – successo con le ragazze. Fatto, quest’ultimo, che me lo rendeva ancora più antipatico.

Mentre svuotavo, per l’ultima volta, la cassetta della posta, vi trovai una cartolina. Sul frontespizio riproduceva «Il bacio» di Hayez. Ricordai che si trovava alla Pinacoteca di Brera, a Milano. Ebbi come un presentimento. Girai la cartolina. Nel retro, poche righe, con una calligrafia tonda, pulita, nitida: «Mi manchi, tanto, troppo…». Era la firma di Laura.

***

Anni di lavori e rimaneggiamenti, ma ora, nella piena maturità, la casa di Fiumetorto è il mio buen retiro estivo. Anche la strada è stata sistemata, quasi interamente asfaltata. Solo per l’ultimo tratto s’è dovuto utilizzare un materiale compatibile con l’ambiente – così m’hanno spiegato – perché è in una zona di interesse naturalistico (o qualcosa del genere).

È agosto pieno. È sera tardi. La vallata in basso è puntellata di luci. Lo stesso la collina sul costone dell’altopiano gessoso.

Ho fatto allargare la vecchia camera da letto e ne ho ricavato uno studiolo, con una finestra che dà sul fondovalle, dove d’inverno scorre il torrente ora a secco. All’improvviso lo vedo, attaccato al muro. È un geco. “Presto, la scopa”, penso. Eccomi, ci provo. Tento di spingerlo verso la finestra, ma lui plana, finisce sopra il tavolo dello studio, da lì passa sotto. Mi piego per cercarlo. Mi ritrovo, capovolto, la schiena sul pavimento, con i miei occhi fissi nei suoi. «Non voglio farti del male», gli ripeto, ma lui pare proprio non sentirci. Fugge ancora, si nasconde tra i piedi delle sedie, risale sul tavolo, ridiscende. Sposto le sedie. Passo la scopa sotto il tavolo. Fugge ancora, si nasconde dietro un mobiletto.

Va avanti così da un’ora. Non riesco a stargli dietro. Sono sudato. Stanco. Ho sonno. È meglio andare a dormire.

Nella foto in alto, Guillaume Canet e Keira Knightley in una scena di «Last night» (2010), della regista iraniana Massy Tadjedin

L’autore

Vincenzo Di Stefano (Castelvetrano, 1970) è giornalista freelance e si è occupato spesso, con articoli e testi critici, di letteratura, teatro e cinema. È autore della raccolta di poesie «I fuochi sono spenti» (2009) e di diversi racconti pubblicati su giornali e riviste.

Scopri di più da Loft Cultura

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading