La narrazione intorno all’immigrazione in Italia ha sempre i contenuti dell’emergenza e del crimine. Soprattutto, in questi giorni con i fatti di Lampedusa, i termini sono dedotti dal linguaggio bellico, che non lascia spazio alla visione, o anche all’utopia, di qualcosa di migliore. Ma soprattutto al desiderio di ciascuno.
Questo raccontino distopico arriva dalla necessità di guardare al futuro, e concepirlo, senza lasciarsi trascinare in basso dai fatti terribili del contingente, da un politica che non sa (o non vuole) vedere oltre il suo naso. Un boccata d’aria. Un salto che la politica prima o poi dovrà elaborare.
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La tv nella cucina di S. si accese all’ora esatta. Erano le 13, e lei era affezionata a quel momento di informazione, un po’ perché il giornalismo era stato il suo lavoro, ma soprattutto perché conoscere i fatti del mondo continuava ad emozionarla.
Quel giorno la notizia che attendeva sarebbe stata fra le più importanti: la votazione del parlamento italiano per l’abrogazione del reato di clandestinità cancellando definitivamente il reato che aveva depredato con violenza la vita di tante persone. Si preannunciava un voto all’unanimità, con pochissime voci contro.
S. aveva vissuto gli anni più terribili dell’immigrazione verso l’Italia. Trent’anni prima prima, gli stati Europei erigevano fortezze in cui rinchiudersi, credendo di poter così limitare tutta l’energia che prorompeva dai paesi africani: un giardino di adolescenza, di vitalità, e di desiderio che le armi di politiche feroci potevano solo ferire, a volte a morte, ma certo mai fermare.
Mentre scorrevano i primi titoli del Tg, S. ripensò a quanta sofferenza aveva registrato nei suoi taccuini e nel suo cuore, ogni volta che un naufragio aveva insanguinato il mare, ogni volta che una storia di speranza – anche la più piccola – era stata recisa, ogni volta che le immagini degli hotspot sparsi per la Sicilia raccontavano l’inferno di situazioni disumane. Una situazione che continuamente, ad ogni evento drammatico o all’aumentare degli sbarchi, veniva etichettata come “emergenza” aveva una sola causa: la volontà arcigna della politica che tutto rimanesse com’era.
Solo da qualche anno il quadro era cambiato. La classe politica europea si era persuasa, non senza scontri con il proprio elettorato, che era necessaria una maggiore integrazione: facendo leva sul diritto ed anche sui fondi che l’Unione distribuisce ai propri federati, erano riusciti a riformare i trattati dando più potere alla Commissione. Avevano messo all’angolo i paesi ancora titubanti e – abolito il criterio dell’unanimità per le votazioni – iniziato importanti riforme. Si stava lavorando di nuovo ad una costituzione unitaria, ma già si era giunti ad un esercito unico, un ministro federale per le politiche estere, e ad una tassazione comune. L’Albania era entrata nell’Unione ed erano stati aperti ufficialmente i trattati con la Turchia.
S. sorrideva ogni volta pensava a cosa aveva dato l’abbrivio a queste riforme: un serie di gruppi di lavoro permanenti e consultivi, presenti in ogni stato. Le “citizens assemblies”: l’istituzione era stata introdotta da qualche hanno in ogni stato dalla Commissione europea ed aveva prodotto delibere di valore in molti campi. Fra cui una altissima sull’immigrazione: un’idea complessiva e visionaria, a tratti utopica, ma con numeri e cifre a sostegno, con assunti puntuali e di buon senso, ottimamente motivati. Fu presto riconosciuta come base politica per ogni idea progressista sulla questione. Lei intervistò, per la rivista per cui scriveva a quel periodo, il responsabile dell’assemblea in Italia. Ricordava perfettamente lo stupore profondo che l’aveva invasa nel vedere questo uomo – filosofo e abruzzese, dall’accento impercettibile – che le disegnava un futuro di umanità, solidarietà, inclusione. Completamente possibile. L’unico davvero possibile.
A poco a poco “l’invasione” si era trasformata in ricchezza. Era così chiaro, era così semplice. Si smise di fare i conti con la matematica torva della ridistribuzione, delle quote, del conto degli sbarchi, per dare spazio e ascolto ai desideri dei migranti. Si smise di pensarli criminali, criminali e basta, quindi detenendoli in strutture perverse; semplicemente si lasciò, con un permesso temporaneo, che potessero cercarsi il proprio lavoro e la propria fortuna in Europa. E così fu. Attraverso canali legali di immigrazione, i piccoli centri si stavano ripopolando, l’economia europea ne stava beneficiando grandemente (in qualsiasi ruolo, da operai o da imprenditori, le capacità liberate erano tante e incredibilmente utili a se stessi e alla collettività); anche gli stati di provenienza, con le rimesse che gli immigrati riuscivano ad inviare, ne avevano beneficiato. Il nazionalismo si stava colorando di ruggine, come un vecchio arnese della storia.
“Da oggi” – iniziava il servizio al Tg – “il reato di clandestinità non esiste più. L’articolo 10-bis del decreto legislativo 286 del 26 Luglio 1998, è stato abrogato. 382 i voti favorevoli, 8 i contrari”. Nessuno era più clandestino da qualche anno, le regole europee avevano abolito de facto questa condizione disumana, stabilendo che fosse diritto di ciascuno, in qualsiasi parte del mondo, migrare e cercare la propria felicità; il voto di oggi era poco più che un passaggio formale.
S. pensò a Tiemoko, Sentwali, Asad, Kojo; a quante volte aveva aperto la propria casa, aveva cucinato per loro, aveva ascoltato le loro storie con occhi attenti. Al loro sentirsi continuamente espulsi e incompresi nel loro desiderio furente di poter avere un futuro possibile. Al proprio sentirsi costantemente espulsa da un sentire collettivo che percepiva distante, amaro, a volte feroce. Solo con alcuni poteva riposare, ristorarsi alle parole di pochi amici; per il resto era sempre pronta – prima – a graffiare, poi a spiegare, a raccontare, a umanizzare. In modo inesauribile.
Ogni volta che aveva potuto si era messa a disposizione, e – con le proprie competenze – 20 anni prima, era riuscita a creare nella propria città un centro di primo soccorso per migranti (poi usato anche dai residenti) dove volontari si alternavano per dare un piccolo supporto alle persone appena arrivate: una camicia, il corso di italiano, le pratiche per il medico di famiglia, l’invio di una email. Cose semplici ma preziosissime. Da qualche tempo non era più necessario. Tutto era molto più facile, più accessibile: se ne occupava il sistema di inclusione europeo che funzionava molto bene.
“Salvini” chiese il giornalista “sembra che il voto di oggi demolisca definitivamente la sua idea di nazione e di Europa”. Il vecchio politico, dopo aver vestito più volte il ruolo di ministro, era adesso l’ideologo di una formazione identitaria, populista, che aveva racimolato pochi voti alle ultime politiche. Fece una di quelle facce torve e severe, che a S. adesso sembravano solo buffe, poi rispose qualcosa al microfono, ma lei non gli prestò attenzione. Tenendosi alla sedia, fece solo un sorriso: non sentiva di aver vinto, solo di essere in un paese più giusto.
Roberto Marzialetti
