Non sono un fotografo. Sono un osservatore. Guardo la realtà non con l’occhio dell’esteta, ma con la curiosità di un passante. Cerco un dettaglio, una smorfia, un gesto all’apparenza banale ma genuino, spontaneo. Soprattutto rubato. Sono foto scattate in flagranza del fatto, senza che il soggetto ripreso abbia consapevolezza di essere osservato e fotografato.
Lavoro con Vittorio Sgarbi dal 2008. E in questi anni l’attività professionale si è mischiata a quella privata. Molti i viaggi di lavoro, altri ancora per curiosità e desiderio di conoscenza: Egitto, Cina, Eritrea, Sudafrica, Palestina. Israele, Marocco, Turchia, Russia, Albania. E poi l’Europa. Un lungo itinerario affidato per lo più al caso, documentato spesso distrattamente, altre volte con maggiore scrupolo, in cui il mio occhio, unito a quello della macchina fotografica, non ha mai cercato una descrizione didascalica dei luoghi, semmai una prospettiva insolita, uno sguardo altro che non fosse banalmente la riproduzione della realtà, ma la sua interpretazione, e ci rivelasse il non detto, fors’anche il non ritratto. Perché dietro ogni foto c’è una storia non raccontata.
In questa “dottrina del caso” non può esserci un metodo. Al punto di osservazione frontale ho sostituito quello sghembo, il meno prevedibile.
Del resto, è davvero difficile fotografare Vittorio Sgarbi, soprattutto se si cerca la posa, la pulizia della forma, il perfetto taglio di luce. Si muove sempre con molta velocità, gesticola parecchio. Più che riprenderlo, la macchina fotografica deve sorprenderlo. Nasce così «Sgarbeide», ovvero questa sequela di fotogrammi scomposti delle vite sgarbiane. Che sono tante, tutte imprevedibili, passando da una sala d’infermeria a una barca sul Nilo, da una polverosa mulattiera dell’Eritrea alle ovattate stanze di un museo di Parigi. Con accompagnatori di ventura che sono vittime e al tempo stesso complici, prima fra tutti la compagna Sabrina Colle. Inseguendo le tante, troppe cose da vedere e da fare, perché come ama dire ossessivamente Vittorio: «Sbrighiamoci, perché stiamo morendo tutti».
Ecco, «Sgarbeide» è un giro sull’Ottovolante delle rocambolesche vite sgarbiane, tra precipizi e dure salite, tra ironia e disincanto, tra stupore e fatica, ansiosi di arrivare alla meta. E altrettanto ansiosi per un nuovo viaggio.
La selezione di foto di questa mostra è frutto del caso, pescate come un biglietto della lotteria dal cilindro dei ricordi. Non si aspetti dunque, il visitatore, un filo conduttore. Sono cartoline di una vita funambolica, che non conosce confine tra il giorno e la notte, tra il lavoro e il puro godimento, ma che danno il senso di una vitalità travolgente. E a me un giorno basterà semplicemente poter dire: «Io c’ero»
