E ci sono parole che solo il sangue le sa. Non registrano orpelli o uno di quegli slanci estetici tanto cari a chi fa maquillage e smalto tra le città di un diario bugiardo e vanesio. Di questi ingordi ne conosco così tanti che a far presto parola è sempre quel senso cannibale di divorare le viscere dell’altro. Ci sono parole che dicono come sta la carne quand’è l’anima appesa al dolore. O nel suo opposto gesto. Ché al contrario l’inchiostro lo mette “tutto il dolore che può”. E parlo di doglie che, slabbrando, mettono un figlio al mondo. Dicono di una doppianza. Il supplizio e l’amore. Insieme, come la saliva del cancro impastata allo sperma della speranza. Una doppianza che mette insieme ferocia e bellezza. Ché a scolpire dolore nella scultura del “mondo dei giorni” viene facile a tutti. Di alcuni di “questi tutti”, io lo so: professano l’amore e il dolore per dare creta ai muscoli rigonfi tra corona e gengiva. Come l’esotico passaggio dei turisti in frontiera quando mostrano il suono di certe fotografie sul “mio mal d’Africa”.
Ma canticchiano, che è ben differente dal far gridare il dolore quand’è la speranza a sottrarre il potere dalla onnipotenza dei chiodi. Sgozzato il dolore si torna a casa ché tutto è concluso. Ma il dolore toglie. Scava carie. Il dolore osserva. Ricorda. È un infame talmente affidabile che perfino la morte gli accorda rispetto. Ma ci sono parole che dicono l’ambizione dei coltelli quando affondare nel marcio è l’unico atto divinamente umano per levare al dolore. Ed è questa la causa dei poeti. Esacerbare dal banale tutti i colori del male. Chi fa poesia è interprete dell’umiltà, cronista delle cose piccole e infime.
Il Poeta è lo storico di tutte le forme di distruzione. È l’occhio che osserva senza concupiscenza. È l’emblema della gratitudine che dobbiamo al nostro presente. Bia Cusumano è tutto questo. E per tutto questo la poesia si fa rotta dentro di lei. C’è l’esporsi del sangue nelle parole di Bia. Eppure, tra ferocia e bellezza, nelle parole della poetessa è tutta la pelle d’Ulisse. La terra erotica del cercare giustizia alla propria nostalgia negata. Fino al sangue riparativo del flettere l’arco contro gli abusi del banale.
La sofferenza delle sue parole sembrerebbe incarnare il discanto.
Per le sue parole l’uomo sembrerebbe infirmus, senza possibilità di guarigione. Ma è questa lacerazione a mantenere Bia in uno stato di continua inquietudine, che è nostalgia di pienezza e di gioia, traccia del paradiso perduto, che c’induce a tendere ad esso e alla imperfetta laicità di Dio.
LA TUA VOCE
Mi hanno detto che vivi nei boschi,
che esci solo la sera quando
il freddo congela le ossa
e il cuore si ferma nel petto.
Mi hanno detto che la Neve
è la tua unica coperta e che invochi
sempre il mio Nome,
come fosse la tua
ultima preghiera.
Mi hanno detto che ti aggiri ferito
senza più una meta,
che hai paura di vivere
ma non sai come morire.
Mi hanno detto che hai perduto il tempo
e sussurri ad ogni passo:
la tua voce è il posto più bello al mondo.
Ti hanno detto che vivo nei boschi,
sotto un Cielo assente,
che ho perduto anch’io il tempo,
che invoco sempre il tuo nome,
come fosse l’ultima mia Preghiera,
che ho paura di vivere eppure
non so come morire.
Ti hanno detto che cado e mi trascino ferita.
Ad ogni passo sussurro:
la tua voce è l’unico posto
che amo al mondo.
Soprattutto, causano bellezza. E per noi affrontano i mille modi con cui è la solitudine del male. Anche quando emerge dalle sue parole l’atrocità di un Dio così umano da tendere alla vendetta. Le sue parole sono per l’empio, per Giuda e per quelli come me. E come te. Sono sigilli che dichiarano il cielo dopo un giuramento. Sono giuramenti che esaltano quella terra che dimentichiamo di avere in ogni getto di sperma tradito.
È densa la parola di Bia. Più di un giuramento.
Sei tu. In ogni forma dell’errore commesso per amore.
Ma la poesia di Bia è la poesia di quella particolare catarsi.
Catarsi come l’evacuazione del sangue mestruale (katamenia). Bia è figlia di questo rilascio particolare, tra miracolo, morte e resurrezione. Il logos perfetto. Come la soluzione del fango. Che sedimenta, trasforma e risolve. Le parole incidono per ristabilire un ordine; dai residui malati, operanti la malattia, Bia recupera gli elementi buoni. Una lotta tra i Trecento di Leonida e gli eserciti del mondo. Tra ferocia e bellezza, appunto. Tutta l’orbità del malato, tutta la primigenia del banale, tutti i convalescenti della sua tiepida, coraggiosa ed omertosa Castelvetrano tutti, nessuno si esclude, tentano la sua carne ferita. La sua è un’evenienza naturale. Il mondo si mescola al suo sangue e attraverso il calore delle sue parole, la poetessa trasforma le opposizioni in seme: il sangue e il seme rimescolati si dirigono verso l’utero della parola. Qui, per tutti noi, Bia assorbe il male e il bene. E ne veicola lo spasmo e poiché i vasi sanguigni in questa parte di vita sono molto stretti, Bia alimenta una specie di emorragia. L’espulsione del seme e del sangue diventano opposti e necessari. E’ il momento. Il male depurato diventa limo. Il limo si fa verbo. E il verbo evolve nella soluzione del fango.
Nel petto di Bia è tutto il furore del male che vogliamo.
IL LIMITE ESTREMO
Toccare il limite estremo
del tuo piacere è sprofondare
nell’abisso sperduto del mio.
Non ricordo dove nasca
il mio gemito né dove giunga il tuo.
Dov’è il confine del tuo sogno
di carne invischiato al mio?
Nelle tue viscere accucciata tocco
i lembi del tuo odore.
La tua pelle è il mio altare.
Roghi di Bellezza ardono
sui nostri corpi avvinti
dalla medesima disperazione
di essere due e scissi,
non ancora uno.
Tu sei il mio segreto
cucito addosso da mani invisibili
e potenti a cui non posso mentire.
Io sola sono il tuo.
Acre e sfuggente, tutte le volte
che mi possiedi mi perdi.
Sono tua se ti accosti
come nell’ombra una lama di luce,
se trapassi il mio ventre
e taci come un asceta
nella sua desolata radura.
Gemmano dalle mie pupille
Nel corpo di Bia, tutta la ferocia dei segni che la Scienza e Dio hanno voluto espiasse per noi: la sua pelle racconta di un assedio oltre che di un saccheggio. Le sue stimmate, in fondo, hanno il peso di quel dazio che i turisti rendono al passaggio in frontiera. Sgozzato il dolore si torna a casa ché tutto è concluso.
La poesia di Bia è come una mescolanza (krasis) ed una proporzione (simmetria) di opposti. Bia ci lega alla morte attraverso la resurrezione di Gerico. Perché ogni giorno, Bia muore e ogni giorno, Bia decide di farsi testimonianza per noi. E tra ferocia e bellezza, emerge l’Itaca ferita. Fango, sangue e limo.
Grazie, Bia. Lo dicono quegli avi internati e differenti. Da Alda a Maria. O nel nome di un padre e di una promessa tradita.
Bia sta morendo dentro la vita, ma la sua poesia è già immortale.
Vito Benicio Zingales