‘Il quadro del vescovo nel feudo di Paruta’ – L’elzeviro. Il dipinto (oggi a Palazzo Abatellis) fu recuperato nel 1904 dall’allora rettore dell’università di Palermo Antonino Salinas
di Vincenzo Di Stefano
La strada, attraversata una gola, scendeva scoscesa, penetrando sempre più nella vallata, al fondo della quale, il fiume Belice s’allargava – qui e là straboccato tra i mandorleti e gli uliveti – in una vasta pianura. Lì sotto, nel 341 avanti Cristo, si sarebbe combattuta la campale battaglia tra i siracusani e i cartaginesi. Il Crimiso di cui narra Plutarco, infatti, difficilmente potrebbe essere il fiume San Bartolomeo, tra Alcamo e Calatafimi, come pure viene frequentemente ipotizzato. Il Belice, invece, protagonista di frequenti inondazioni, avrebbe giocato un ruolo di primo piano nell’impantanare le truppe puniche impegnate nel suo attraversamento, e nell’agevolare quindi gli opliti di Timoleonte che scendevano dai fianchi delle colline.
Il calesse saltella ora sulle mulattiere di questa terra di rossi corposi. Sono i terreni sulfurei a dare consistenza ai vini. E lo zolfo, da fessure sparse per la campagna, da crepe, da piccoli crateri, da polle giallastre, viene fuori con il suo caratteristico odore di uova marce.
È l’inizio della primavera del 1904, una primavera che porta ancora addosso i segni di un inverno piovoso, troppo piovoso. Il calesse è partito da Palermo all’alba e ora sta percorrendo l’ultimo tratto di strada che lo separa dalla sua meta prestabilita: Salaparuta, un borgo di contadini e pastori che nel quindicesimo secolo fu dimora del barone Ruggero Paruta, divenuto viceré di Sicilia nel 1435.
Il calesse passa dinanzi la chiesa madre, la cui bella facciata ricalca quella della chiesa del Purgatorio di Trapani, e si ferma infine davanti un edificio del corso principale. Antonino Salinas scende e si scrolla di dosso la polvere che intanto gli impasta la saliva. Bussa al portone. Una, due, tre volte. È il rettore dell’università di Palermo, nonché il direttore del Museo nazionale nella stessa città; un archeologo rinomato, in quel momento all’apice della gloria scientifica.
È impaziente mentre attende una risposta che tarda ad arrivare. Alza e fa calare ancora il battente. Poi, finalmente, il portone si apre. Nella penombra una figura nera, di donna ossuta e invecchiata dal tempo, gli fa
cenno di entrare. Si chiama Francesca, è la sorella di Vincenzo Di Giovanni, lì nato il 19 ottobre 1832 e lì spirato il 20 luglio 1903. Un filosofo e un filologo, tra i maggiori eruditi siciliani dell’Ottocento, autore di diverse opere, la più notevole delle quali è la «Storia della filosofia in Sicilia dai tempi antichi al secolo XIX» (1872). Di Giovanni fu docente di lettere e filosofia, oltre che consigliere comunale a Palermo nel 1895. Ma anzitutto fu un uomo di chiesa. Ordinato sacerdote a Mazara del Vallo nel 1856, divenne vescovo della diocesi egiziana di Teodosiopoli nel 1897 e arcivescovo nel 1901. Di Salinas, con cui condivise i banchi consiliari a Palazzo delle Aquile, fu grande amico.
Ed ora l’amico di un tempo è lì, nella casa in cui Di Giovanni vide la luce e dove era spirato pochi mesi prima. E non per una visita di cortesia. Ha invece un compito ben preciso. E lo palesa alla donna. Vuole essere accompagnato nella stanza del dipinto. La donna gli fa strada. Pochi passi in un corridoio stretto e lungo, una leggera svolta ed ecco, il dipinto è lì: una piccola tavola illuminata dalla luce seppur fioca che viene da due finestre che gli stanno ai lati. L’ovale delicato di una donna; il capo coperto da un manto azzurrino che le ricade ai lati, due dita della mano sinistra pudicamente lo chiudono all’altezza del petto; gli occhi, scuri, fissano, di sbieco, un ideale interlocutore; la mano destra aperta e leggermente alzata quasi ad intimare l’alt; su un leggìo, un libro aperto.
Salinas ha un sussulto. Deglutisce. In gola, oltre alla saliva, sente ancora il sapore della polvere. Non ha neppure chiesto un po’ d’acqua da bere. Troppa la tensione dell’attesa. Prega la donna di poter prendere il quadro, portarlo con sé come ricordo dell’amico scomparso. Le promette che avrà degna conservazione e che vi farà apporre una targhetta per perpetuarne la memoria. La donna acconsente.
Col quadro sottobraccio, l’indomani mattina, all’alba, Salinas risale sul calesse e riprende la strada da cui era venuto.
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Chi entra a Palazzo Abatellis, a Palermo, oggi sede della Galleria regionale della Sicilia, i cui spazi sono stati progettati dall’architetto veneziano Carlo Scarpa, è colpito anzitutto dall’imponente affresco che occupa una parete del piano terra, il «Trionfo della morte», realizzato all’incirca nel 1446 da un autore ignoto: un «memento mori» terrificante. Con ancora negli occhi e nel cuore quell’immagine raccapricciante, il visitatore sale la scalinata
che porta al primo piano. Lì, quasi al termine d’un lungo corridoio, gli occhi e il cuore si placano, trovando pace nella contemplazione della «Annunciata», piccolo dipinto ad olio di Antonello da Messina, realizzato nel 1475 e tra i suoi principali capolavori. Anzitutto per quella capacità, che Antonello ebbe tra i primi, di rileggere i fiamminghi e quindi “tradirli”. Superandoli infine nell’uso del colore, della luce e dello spazio. Sulla paternità dell’opera, a lungo attribuita a Dürer, molto si discuterà. A Dürer era infatti ancora ascritta a fine Ottocento, quando si trovava, a Palermo, nel palazzo del barone Colluzio. Dal quale però era poi passata ad un religioso appassionato d’arte, che se l’era portata nel suo borgo natìo. Solo nel 1906, una commissione, voluta da Antonino Salinas, ne attribuì l’esecuzione ad Antonello da Messina.
A rimirarla, commuove. L’ovale delicato di una donna; il capo coperto da un manto azzurrino che le ricade ai lati, due dita della mano sinistra pudicamente lo chiudono all’altezza del petto; gli occhi, scuri, fissano, di sbieco, un ideale interlocutore; la mano destra aperta e leggermente alzata quasi ad intimare l’alt; su un leggìo, un libro aperto.
La targhetta, che inizialmente era collocata accanto alla tavola con l’iscrizione «Dono di monsignor Di Giovanni», una volta caduta – come notò Salvo Sbacchis – non sarà più riposta. Privando così il visitatore di un’informazione non secondaria sui vari passaggi di mano dell’opera. E soprattutto su quegli anni (verosimilmente cinque, ossia quelli che intercorrono tra la sua presenza nel palazzo Colluzio e la venuta in possesso di Salinas) in cui dimorò in una casa della vecchia Salaparuta. Una casa di cui non resta traccia, spazzata, come le altre, dalla furia del terremoto del 15 gennaio 1968.
Nella foto in alto, la «Annunciata» (1475) di Antonello da Messina.
L’autore
Vincenzo Di Stefano è nato a Castelvetrano nel 1970 e vive a Santa Ninfa. Giornalista free-lance, esperto di comunicazione istituzionale, si è occupato spesso, con articoli e testi critici, di letteratura, teatro e cinema. È anche autore di diversi racconti pubblicati su giornali e riviste.