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«Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo»

di Vincenzo Di Stefano

Il racconto. Sul filo dei ricordi, una vicenda di struggenti passioni amorose, costantemente oscillante tra eros e thanatos

La sentenza arrivò in pochi minuti. «È un problema agli iniettori. Capita spesso su questo modello. Ci devi lasciare l’auto», disse quello più anziano.

Il fratello più giovane sogghignava silenzioso mentre armeggiava sul motore di un furgone.

«Costerà molto sistemarla?», abbozzai immaginando la risposta.

«Beh, sì, ma bisogna capire se il problema è ad un solo iniettore o a due. Ma potrebbero anche essere tutti e quattro. In genere salta la bobina elettrica, mentre la parte meccanica rimane integra».

Avevo da giorni il cuore gonfio. Mi mancava la voglia di mettermi a discutere. Volevo solo tornarmene a casa.

«Vuoi un passaggio?», chiese quello più giovane. «Devo andare a ritirare un pezzo di ricambio, dall’altra parte della città», aggiunse. Accettai.

Era un pomeriggio di fine giugno, pieno di luce. Afoso. La vita esplodeva come ogni estate a quelle latitudini, frenetica, vogliosa.

Ma stavo elaborando il mio lutto amoroso, avevo perso ogni slancio vitale e rimuginavo sugli avvenimenti delle ultime settimane. Cercavo la quiete. Il riposo. Thanatos stava esercitando la sua massima seduzione.

***

Avevo portato via Monica ad un amico fraterno, Michele. La amavo disperatamente. Per due anni mi ero roso d’invidia e gelosia, vivendo la fase aurorale del loro intreccio sentimentale come una ferita insanabile. Avevo provato a staccarmi. Ad uscire con altre, a frequentare ragazze lontane dalla cerchia ristretta.

M’era capitato, una sera, d’accompagnare Marco, un amico non dei più intimi, ad un appuntamento galante con una collega di lavoro ad Alcamo. «Vieni, dai, lei porterà un’amica», aveva

insistito. Fu così che conobbi Federica, una studentessa di giurisprudenza avvenente e dalla parlantina sciolta. Nel volgere di un paio di settimane e altrettanti incontri, stavamo già assieme.

Ma era poco più di un flirt estivo. Mi annoiavo peraltro intensamente. Anche nei rari momenti di intimità sessuale. Ero con lei, ma pensavo a Monica.

E poi una sera m’aveva ferito: «Baci male», aveva sibilato velenosa, così, d’un tratto, staccandosi da me e facendo l’offesa. Poi aveva aggiunto il carico: «Sei un iceberg».

Era troppo anche per me. Mi stavo trascinando come uno Zeno Cosini qualsiasi. Un inetto incapace di decidere della sua vita, trasportato dalla corrente.

In quei pochi mesi passati con Federica, capitava che Monica mi mandasse qualche messaggio. Era un’abitudine, quella di sentirsi di tanto in tanto anche per un breve saluto scritto, che avevamo preso da prima che si innamorasse di Michele.

Io m’infuocavo, puntualmente. Cercavo di rispondere in modo distaccato, ma non ci riuscivo. Le parole, che nascevano piane, viravano presto su toni romantici, enfatici. Lei sapeva già che la amavo in silenzio. L’aveva compreso da un pezzo. Io, invece, non avevo ancora capito d’essere ricambiato.

***

Avevo trent’anni. Dalla direzione generale, un giorno, mi comunicarono che mi trasferivano per sei mesi ad Agrigento. «Ma che ci vado a fare lì?», protestai nemmeno troppo convinto.

«Ci sono stati due pensionamenti e c’è da riordinare il nostro ufficio di corrispondenza. Serve qualcuno che non faccia troppi danni», fu la risposta.

Arrivai sulla Rupe atenea i primi di settembre. Alloggiavo in un appartamento in affitto al quinto piano di una palazzina nuova. Il secondo giorno, mentre salivo carico di borse della spesa, da solo, l’ascensore si bloccò tra il terzo e il quarto piano. L’ideale per chi soffre di claustrofobia. Ci rimasi mezz’ora, attaccato al telefono a provare a chiamare soccorso. Nel momento in cui dal pianerottolo del quarto piano la signora Accursi cominciò a chiamare disperata l’anziana madre, temendo fosse lei quella imprigionata,

l’ascensore, come d’incanto, ripartì. Ma i mesi successivi furono complicati, anche se l’ascensore, a detta dei vicini, non s’era più bloccato. Presi così l’abitudine di pranzare e cenare spesso fuori. Da solo.

I colleghi, in ufficio, erano taciturni, anche più di me, e pure un po’ scostanti, caratteristica, quest’ultima, che me li rendeva simili più di quanto pensassi. Ma si lavorava bene, anche meglio di quel che avessi sperato. Compresi che non ero stato mandato lì per caso. Ne fui contento.

Fu un distacco salutare. Sarà stata l’esigenza di adattarsi ad un ambiente nuovo, ma per la prima volta negli ultimi due anni non avevo quasi pensato a Monica.

Fu quando rientrai a Trapani che il cielo tornò ad oscurarsi. L’ossessione amorosa si rimpossessò di me. Monica mi pareva improvvisamente fredda, distante, ancora più avvinta a Michele.

Mi sentivo morire, imbrigliato in una disperazione senza speranza.

***

«Dammi solo un minuto/ un soffio di fiato / un attimo ancora./ Stare insieme è finito/ abbiamo capito/ ma dirselo è dura».

Le note di un vecchio pezzo dei Pooh mi avevano d’improvviso ridestato dal torpore nel quale ero caduto quel giorno di fine agosto. Le ferie agli sgoccioli, i primi temporali improvvisi ad annunciare l’avvicinarsi dell’equinozio, la fine dell’estate.

Avevo preso l’auto per andare a Marinella, percorso la costa e passato da capo Boeo. Volevo tornare a vedere la spiaggia dell’acropoli. E lì rievocare, ancora una volta, Monica. Quella prima sera di lingue furenti, di morsi affamati, di un piacere a lungo frustrato che ora poteva sfogarsi, insaziabile, sulla sabbia, dietro una barca rovesciata. Il rumore della risacca a far da controcanto ai nostri gemiti. La luna, alta nel cielo, unica testimone quando, al culmine del godimento, Monica mi aveva fatto esplodere nella sua bocca.

***

Ero stato la prima volta a Zurigo l’anno della maturità liceale, in vacanza dagli zii che lì vivevano.

Una mattina di fine dicembre, tersa e fredda, senza vento, avevo accompagnato mio cugino, di qualche anno più grande, alla biblioteca centrale. Mentre lui consultava dei volumi che gli servivano per la tesi a cui già lavorava, io me n’ero andato in giro. Avevo percorso a piedi tutta la Bahnhofstrasse fino al lago e lì avevo poi sostato a lungo davanti alcune costruzioni di fine Ottocento, immaginando di rintracciare quella che era stata l’alcova nella quale Carl Gustav Jung aveva consumato la sua passione adulterina con Sabina Spielrein, la paziente prediletta. La immaginavo così: una casa borghese, spartana, del tutto diversa dalla villa-reggia di Küsnacht, sempre sul lago, pochi chilometri più a sud.

Ed era come se me li vedessi davanti: lui avvinto dai sensi di colpa, lei perennemente sospesa tra il genio e la coazione a ripetere. Un intreccio amoroso che diventerà il paradigma del transfert e del controtransfert.

Sabina non aveva ancora scritto il suo saggio sull’elemento sadico della pulsione sessuale, da cui Sigmund Freud avrebbe tratto ispirazione per «Al di là del principio di piacere». Eros e Thanatos a fronteggiarsi l’uno di fronte all’altro. Eros e Thanatos, due poli magnetici nella vita di ogni individuo.

***

Avevo lasciato Agrigento per tornare a Trapani da un paio di settimane. Una sera, in pizzeria, con la comitiva di vecchi amici – Michele stranamente non c’era – Monica s’era seduta vicino a me. Era allegra. Euforica quasi. Biascicò qualcosa su Michele – «Abbiamo litigato» – e all’improvviso mi prese la mano, sul tavolo. Non avevo avuto il tempo di riavermi che aveva accavallato la sua gamba sinistra sulla mia gamba destra. E mi parlava, ridendo. Io non capivo più una parola.

Il cuore aveva accelerato il battito, il testosterone ormai mi dominava. Ebbi solo la lucidità di chiederle: «Domani sera ti va di andare a cena da qualche parte?».

«Sì, bello mio», rispose.

“Mai stato bello”, pensai tra me. Ma non m’importava.

***

L’élan vital, il soffio vitale del desiderio amoroso che è innato in noi. Quello ci spinge. Dalla nascita alla morte. Tutto il resto è un contorno di inutili chiacchiere e vacue elucubrazioni.

Con Monica era andata avanti per quattro anni. I più felici della mia vita. Lei prima di tutto. Prima anche del lavoro, che mai avevo trascurato. Almeno fino ad allora.

Ma avevo come un conto aperto con il destino. Solo che, inebetito da quella passione, non vedevo, non immaginavo nient’altro.

Poi Monica cambiò. Lentamente dapprima. Dopo sempre più velocemente. Aveva un collega, nella scuola dove insegnava, che la corteggiava da qualche mese. Me n’ero accorto e glielo avevo anche detto, ma così, per riderne. Mi sentivo invincibile. Ma sbagliavo. Monica infatti non rise. Il piano si stava inclinando. La mia fine si avvicinava. Era solo questione di tempo.

Ce ne volle anche meno di quel che potevo figurarmi. Dopo l’ennesimo litigio, Monica mi mollò, senza tanti giri di parole. D’altronde aveva fatto lo stesso, quattro anni prima, con Michele. E allora ne avevo goduto. Stavolta toccava a me cedere il posto, nel suo cuore, ad un altro.

«Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo/ e la mia faccia sovrapporla/ a quella di chissà chi altro», cantava De Gregori in un lontano giorno di luglio, nelle cuffie, alla fine del terzo anno d’università, mentre aspettavo che Giorgia, la fidanzata dell’epoca, terminasse l’esame di sociologia subito dopo il mio. Era l’ultimo appello. Palermo, fuori, per la calura, emanava un olezzo rancido. Ma noi, allo zenit della giovinezza, pensavamo solo alle vacanze, al mare, al nostro amore fatuo.

***

Ero sopravvissuto. Non so neppure come. Thanatos non l’aveva spuntata. Non quella volta almeno. C’era voluto un anno e mezzo.

Ma ero come risorto. Segnato, certo. Ma avevo ripreso a gustarmi la vita.

Dalla direzione generale mi avevano intanto trasferito a Palermo. Definitivamente. E avevo ritrovato la città dei miei anni d’università. E l’avevo amata, diversamente da allora.

Poi avevo conosciuto Emma. E nel volgere di un paio d’anni c’eravamo sposati, acceso un mutuo in banca e comprato casa a Isola delle femmine, a poca, ma salutare, distanza dal caos cittadino.

La casa s’era presto animata: di cani, gatti, figli. Nel frattempo i genitori anziani cominciavano ad andarsene. Le stagioni si susseguivano. La vita faceva il suo corso. E il soffio vitale del desiderio ogni tanto si spegneva, poi si riaccendeva, poi si rispegneva e avanti così.

Erano passati ormai dieci anni da quel giorno in cui Monica se n’era andata. Era estate ed ero tornato a Trapani per una breve vacanza, con Emma e i bambini.

Un giorno, mentre calava la sera e il favonio s’insinuava tra i palazzi di corso Garibaldi, la rividi. Dall’altra parte della strada. Sul marciapiede. Teneva per mano una bambina, avrà avuto cinque anni. Entrambe vestite con un abitino bianco – con dei piccoli girasoli stampati quello della bambina –, i sandali ai piedi. Stava per attraversare sulle strisce pedonali. Mi vide. Mi riconobbe. Rimase così, sospesa, per qualche secondo. Poi, sempre tenendo stretta la bambina per mano, tornò sui suoi passi. E cambiò direzione.

(Nella foto in alto, Irène Jacob ne «La doppia vita di Veronica» [1991], una delle opere più struggenti del cineasta polacco Krzysztof Kieślowski)

L’autore

Vincenzo Di Stefano è nato a Castelvetrano nel 1970 e vive a Santa Ninfa. Giornalista free-lance, si è occupato spesso, con articoli e testi critici, di letteratura, teatro e cinema. È autore della raccolta di poesie «I fuochi sono spenti» (2009) e di diversi racconti pubblicati su giornali e riviste.

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