Nel cassetto del mio comodino languisce l’abbonamento teatrale della stagione passata e ogni mattina, quando lo apro, lo sguardo si posa su quei blocchetti inutilizzati, provocandomi una disperata nostalgia per tutto ciò che mi manca da un anno a questa parte, da quando il virus si è impossessato delle nostre vite determinandone i limiti esistenziali.
Per tutti quelli che amano il “teatro” e lo vivono da sempre, si tratta di una mancanza opprimente oltre che snervante. Mancano i luoghi e gli spazi, l’odore e l’atmosfera, la luce e la penombra, l’immaginazione su ciò che può accadere, l’entusiasmo e la delusione, il dolore e la gioia, la curiosità per ciò che non si conosce ancora e la voglia di sapere e sapere, come un nutrimento impossibile da sostituire con altri meri surrogati della rappresentazione teatrale.
Il teatro, spazio aperto e libero dove l’attore stabilisce una forte relazione empatica con il suo pubblico, è il luogo magico dove s’incontrano anima e corpo dell’autore, del regista, dell’attore, dello spettatore, e non solo, perché ogni componente della creazione dell’opera teatrale è parte integrante dello spettacolo: anche l’attrezzista ha un suo ruolo importante. Il luogo può occupare qualunque spazio fisico, dalle strutture teatrali, alle piazze ad ogni angolo di mondo che possa accoglierlo in un perimetro ben delimitato. Lo spazio scenico, dove avverrà la rappresentazione, vive anche di un suo luogo mentale evocato dallo spettatore sin dell’inizio dello spettacolo e dalla bravura dell’attore che ne circoscrive i confini pur potendo mutarne superficie e struttura.
La rappresentazione, nonostante la precisione dell’azione scenica, è una perla esclusiva e nella sua ripetizione mantiene l’esclusività intima e mai identica, dove cambiano di volta in volta gli spettatori, parte integrante dello spettacolo e lo spirito dell’attimo vissuto dagli attori: insomma una macchina perfetta con recondite imperfezioni che rendono unica la sua esecuzione.
Gli albori della sua storia sono riconducibili a riti sacrali, dove il “sacerdote” era l’attore e i “fedeli” gli spettatori; col tempo, da rito sacro diventa profano, gli eventi storici smantellano il senso religioso della rappresentazione rendendola laica, talvolta mondana e commerciale. La storia del teatro si accompagna alla storia dell’uomo, ne racconta le vicende, le sofferenze, le aspettative, le giocosità della vita, le intime perversioni e talvolta, diventa strumento di lotta politica e denuncia sociale. Nel tempo, il teatro ha assunto innumerevoli stili e generi: dalla tragedia, alla commedia, alla commedia dell’arte, al teatro dell’assurdo, al mimo, al Kabuki, e altri generi frutto della cultura dei popoli.
Tutte queste componenti fanno il teatro non consentendo tuttavia di ridurlo ad una mera esecuzione filmica, se non come strumento di ricordo di ciò che grandi drammaturghi hanno scritto e rappresentato. Le commedie di Eduardo trasmesse in televisione, per esempio, ci ricordano la grandezza del suo autore, stimolando le nostre emozioni come nutrimento amoroso per il “teatro”. L’esecuzione in streaming di rappresentazioni realizzate dai vari teatri, durante questo periodo di pandemia può solo mantenere memoria di ciò che ama chi vive di teatro, ma non può mai essere teatro.
Guardando l’abbonamento, al cui rimborso ho rinunciato in favore della Fondazione Teatro Biondo di Palermo, penso e mi immedesimo nella sofferenza di tutti coloro che danno vita a questa macchina meravigliosa; compreso me stessa, semplice spettatrice che svolge la sua parte con devozione e impegno, sperando che il tempo possa restituirci ciò che amiamo per ritornare a narrare e narrarci dentro il grande cerchio magico che è anche il teatro della nostra vita.
Francesca Picone
